giovedì 31 marzo 2011

PER COSTA




PER COSTA



Orazio Costa: progetto volume di documentazione e ricerca sul Metodo mimico



Dopo un anno e mezzo di lavoro condotto presso l'Accademia d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico", col beneplacito e l' incoraggiamento dell'allora direttore Luigi Musati, l'autrice propone un progetto di strutturazione organica del materiale raccolto in vista della pubblicazione di un volume che documenti e analizzi ampiamente le applicazioni del Metodo mimico ideato dal maestro Orazio Costa.

E' stato lo stesso maestro Costa, in un nostro incontro a Firenze nel 1999, pochi mesi prima della sua scomparsa, a suggerire la metodologia, da seguire nel lavoro di ricerca, chiedendomi di partire proprio dalla voce degli allievi più giovani che, per la prima, volta, si avvicinavano allo studio della, mimica. Cosi proprio a partire dalla raccolta di informazioni e opinioni dei giovani allievi, ha preso avvio questo studio che ha avuto, per chi scrive, anche un risvolto molto interessante ed impegnativo e cioè quello di sperimentare la mimica insieme agli allievi dei corsi dell'Accademia.

Anche questa esperienza mi è stata suggerita, dal maestro Costa: " non mi interessa un nuovo libro sul Metodo- dichiarò infatti in occasione del' intervista che mi rilasciò nel salotto dì casa sua, alla presenza, di Alessandrà Niccolini- mi interessa sapere che cosa è il metodo per gli allievi e gli attori che lo hanno praticato.

E anche lei dovrebbe praticarlo, solo così potrà descriverlo meglio".

La ricerca, parte quindi da una esperienza personale diretta, veicolata dai miei interessi ormai ventennali di giornalista, critico teatrale e studiosa di teatro.

Premesso questo, conservata, cioè l'impostazione metodologica suggerita da Costa che mette in primo piano l'esperienza del metodo e che passa attraverso la fisicità del racconto-narrazione, l'autrice ha ideato e definito l'Indice con i relativi capitoli del volume che si arricchisce altresì di confronti con altre esperienze di ricerca e didattica teatrale avvalendosi della voce dei docenti di mimica, di attori noti e giovani ex allievi che hanno avuto in Costa e nel suo metodo il proprio maestro riconosciuto.



















SCHEDA VOLUME di documentazione e ricerca sul METODO MIMICO

Piano dell'opera





Introduzione (a cura di Andrea Camilleri)



Capitolo primo

Breve saggio introduttivo che da una prospettiva storico evolutiva inquadra il ruolo della mimica nella pedagogia e nella pratica teatrale de! secondo Novecento. Le prospettive per il nuovo secolo.



Capitolo secondo



Racconto-narrazione dell'esperienza dell'autrice-"allieva" (uditore esterno) all'Accademia Silvio D'Amico.

L'incontro con gli allievi in Accademia. Approccio alla mimica. Descrizione del lavoro e delle impressioni degli allievi del 1 anno di corso di Educazione del corpo (docente Alessandra Niccolini).

Giudizi sulla mimica degli allievi del primo anno a fine corso ( anno 1999-2000).

Descrizione del lavoro e delle impressioni del lavoro degli allievi del secondo anno ( docente A. Niccolini).

Giudizi sull'esperienza della mimica alla fine del secondo anno di corso.

Breve descrizione del lavoro degli allievi del 1 e II anno dei corso di Educazione alla voce ( docente Giuseppe Bevilacqua),



Lavoro con la mimica in forma di spettacolo: descrizione di saggi laboratorio con utilizzo della mimica con allievi del I e II anno dell'Accademia Silvio D'Amico.

Storicizzazione e analisi dell'evoluzione del metodo attraverso le applicazioni dei diversi docenti secondo i rispettivi apporti.



Capitolo terzo

Raccolta di materiali e di interviste con docenti di mimica che operano fuori dalla struttura dell'Accademia.Verifica e applicazione del metodo mìmico in altre situazioni che non siano esclusivamente finalizzate alla formazione teatrale: il lavoro con la regia cinematografica (l'esperienza di Mirella Bordoni presso il Centro di Cinematografìa di Roma), il lavoro con la mimetica nell'handicap ( l'esperienza di alcuni psichiatri), il lavoro mimico coi bambini. Altre esperienze.











Capitolo quarto

Breve storia della mimica narrata attraverso le voci dei protagonisti. Dalla scuola di Bari al Centro Mimico di Firenze. Carlo Rosselli, Marco Giorgetti, Alessandra Niccolini, Pino Manzari, Maricla Boggio e altri.

Ampia raccolta di materiali e interviste con attori e registi di formazione costiana: il contributo del metodo alla storia del teatro italiano: Camilleri, Gifuni, Lo Cascio, Vitti, Herlitzka, Ronconi, Foschi, Lavia, Giannini, e altri.



E' possibile l'inserimento di foto e materiali video originali in allegato.

mercoledì 30 marzo 2011

LUCA RONCONI-PER COSTA

Luca Ronconi è stato allievo  di Orazio Costa  all'Accademia Nazionale d'arte drammatica. Il documento è stato gentilmente concesso da pubblicazione  ETI informa- speciale Orazio Costa -novembre 2000, a pochi mesi dalla scomparsa.
Segue un intervento- lezione del novembre 2010 di Luca Ronconi al Teatro Era- Grotowski di Pontedera da me trascritto.


VERSO ORAZIO
Sia per mancanza di tempo e di abitudine, sia soprattutto per una certa qual sfiducia nelle mie qualità di scrittore, da  sempre mi riesce diffìcile mettere su  carta i miei pensieri: per lo più - e certo se così non fosse nella mia vita non mi sarei trovato a fare il regista - preferisco ricorrere al teatro per parlare di chi o di quanto mi sta a cuore; quando però dall'Ente Teatrale Italiano mi è arrivato l'invito a stendere un breve contributo in ricordo di Orazio Costa a poche settimane dalla sua morte, vincendo d'acchito tutte le mie più profonde remore nei confronti dell'esercizio diretto della scrittura, ho subito accettato la proposta nonostante la circostanza fosse quanto mai "a rischio": non di rado infatti, specie in un "autore" inesperto quale io sono, al di là di ogni buona intenzione la sincera volontà di dar voce al dolore per la scomparsa di una persona cui si era legati, mantenendone vivo il ricordo, finisce, fissandosi in discorso, con l'impantanarsi tra le secche delle facili frasi fatte - non per nulla, ma è già questo un luogo fin troppo comune, si sa che spesso di fonte all'enormità e all'eccezionaiità di un evento come la morte, l'unico possibile commento è il silenzio. Fatti tutti questi preamboli, perché dunque - e io per primo me lo sono chiesto - non ho esitato un istante nel rispondere alla sollecitazione del professor Tian? La prima ovvia risposta è che per chiunque in Italia ami il teatro, sia come "fruitore" sia come "operatore", rendere omaggio a Orazio Costa all'indomani della sua scomparsa, era sicuramente un atto dovuto. Non sono uno storico della scena e non spetta quindi a me render conto in dettaglio dei debiti che buona parte dei protagonisti del teatro italiano del dopoguerra hanno contratto nei confronti di Costa, ma credo sia sotto gli occhi di tutti l'importanza dell'apporto che Costa ha dato alla crescita della civiltà teatrale italiana nella seconda metà del secolo che si è appena concluso. Compagno di strada di Silvio d'Amico e allievo assistente di Jacques Copeau, promotore e protagonista numero della "rivoluzione" teatrale, che a partire dai tardi anni Trenta segna l'avvento sui palcoscenici patri della figura del "regista" - parola e figura nei confronti della quale egli, d'altra parte, conservò un'ironica "distanza" per tutta la vita -, pedagogo di non comune carisma impegnato con rara abnegazione nelle più diverse avventure didattiche - dal pluridecennale insegnamento in Accademia a quello presso il Centro Sperimentale di Cinematografìa, dalla creazione del Centro di Avviamento all'Espressione di Firenze all'apertura della Scuola di Teatro di Bari , maestro a vario titolo di quasi tutti i più acclamati interpreti della nostra scena (e non solo), da Tino Buazzelli a Nino Manfredi, da Paolo Panelli a Glauco Mauri, da Monica Vitti a Rossella Falk, da Umberto Orsini a Giammaria Volonté, da Gianrico Tedeschi a Giancarlo Sbragia o a Gabriele Lavia - per non citare che alcuni nomi a caso dallo sterminato registro dei suoi allievi , Costa ha lasciato una traccia indelebile nel panorama teatrale italiano degli ultimi decenni. Probabilmente considerazioni di questo genere già sarebbero sufficienti a spiegare in assoluto il desiderio, o forse meglio la necessità di ricordare il lungo viaggio attraverso la scena di Costa, ma non bastano a far luce sui motivi più veri che mi hanno spinto a scrivere queste righe.

Abbandonando il punto di vista generale a vantaggio di una prospettiva più personale, devo subito cominciare con l'ammettere che per primo appartengo alla gran massa degli uomini di teatro italiani che non possono rinnegare  i propri obblighi di riconoscenza nei   confronti di questo grande Maestro. Nel biennio 1951-52, 52-53 ebbi Costa come insegnante di recitazione in Accademia e in quegli anni mi trovai pure a seguire le sue lezioni di regia; subito dopo il mio debutto come attore sotto la guida di Squarzina in Tre quarti di luna nel 1953, proprio diretto da Grazio Costa mi trovai poi a cimentarmi nella mia seconda prova d'attore in una messa in scena di Candida di George Bernard Shaw prodotta dal Teatro Stabile di Roma nel 1954. Il successivo appuntamento professionale - ma questa volta a ruoli invertiti - col mio ex insegnante risale a una ventina d'anni dopo la messa in scena shawiana appena ricordata, quando volli cioè Orazio come attore nella versione televisiva di Orlando furioso. Al di là delle profonde differenze di gusto e di orientamento culturale che ci hanno separati, non posso e non voglio nascondere che Costa ha ricoperto un ruolo determinante nella mia formazione teatrale. Certo non mi sono mai riconosciuto nel metodo Costa, ma da Costa ho imparato la necessità di fondare su basi etiche (più ancora che mistiche) il rapporto con la scena, il piacere di analizzare le questioni interpretative risolvendole di volta in volta secondo le loro irriducibili specificità nell'ambito di una robusta "quadratura" intellettuale e, pur se forse sulla base di diversi presupposti estetici, con Costa ho condiviso la passione per la parola-in-scena. In fondo alle origini della mia visione del teatro come momento di conoscenza c'è anche l'idea costiana del teatro come "misura dello spirito", alle radici del mio approccio empirico all'esperienza registica ci sono i ricordi di certe lezioni di Costa e di certi suoi suggerimenti su come "scartocciare" - mi si passi il termine -logicamente i problemi di senso; forse il mio rispetto quasi maniacale del testo non poggia sulla fede nel logos, ma sicuramente la cura attenta che cerco di dedicare alla restituzione teatrale della parola non è troppo lontana dal rigore con cui Costa "leggeva in scena" Ibsen o Molière, Goldoni o Alfieri o i classici del teatro religioso medioevale. È proprio per questa via, ossia attraverso un aperto riconoscimento di quanto ho appreso da Orazio Costa, che posso arrivare a parlare del senso autentico di queste mie frammentarie note. A fronte della sincera ammissione dell'influenza che Costa ha avuto sul mio percorso teatrale, influenza che a dire il vero non ho mai voluto negare o celare, c'è da parte mia un'acuta percezione dell'ingratitudine che, di fatto, ho riservato, e forse in questo non sono ahimè stato il solo, a questo grande uomo di teatro. Sia chiaro che chiamando in causa la società teatrale italiana - o quanto meno parte di essa - nel mio discorso non intendo sottrarmi a quelle che sono e so essere le mie personali responsabilità, né, men che meno, voglio accusare qualcuno in particolare, ma sforzandomi di essere il più possibile lucido vorrei cercare di rendere il giusto riconoscimento a Costa, tentando, per quanto possibile, di trarre anche da un avvenimento doloroso come la sua scomparsa un insegnamento o per lo meno un motivo di riflessione. Credo sia fuor di dubbio che, fatte alcune debite eccezioni, il teatro italiano, di cui torno a dire io per primo faccio parte, si sia mostrato nei fatti, anche se certo non per deliberata cattiva intenzione, irriconoscente verso Grazio Costa, che proprio al teatro italiano ha consacrato l'intera esistenza: l'isolamento in cui non si può negare Costa abbia vissuto negli ultimi anni della sua vita è lì a dimostrarlo, costringendoci a prendere posizione su quale sia l'essenza dei nostri costumi teatrali. Sicuramente Costa per primo, con quel suo inconfondibile e un po' aristocratico distacco ha contribuito in un certo qual modo a creare la situazione che ho appena denunciato, ma lungi dall'essere una giustificazione dell'operato di chi, come me, non ha saputo o voluto dimostrare appieno la propria gratitudine ad un tale maestro, proprio quest'ultima osservazione ci fornisce nuovi soggetti di meditazione. In una società teatrale dominata da una certa "scioltezza", da una certa affettazione di cordialità, i modi severi e austeri di Costa, certo talvolta fors'anche un po' pedanti, ma sempre rispettosi e dettati da un solidissimo codice morale, non sono stati mai più di tanto accettati e capiti. Ma una società teatrale di questo tipo può darsi una "tradizione"? E ancora: può esistere una vera civiltà teatrale in mancanza di una tradizione? E in ultimo: Costa non ha forse cercato per tutta la sua vita di fondare a suo modo proprio una "tradizione"? Ma allora che risultati hanno prodotto i suoi sforzi? Certo questi interrogativi non possono non lasciare in chi li pone una profonda amarezza, ma in questa sorda inquietudine, in questa insoddisfazione che essi provocano, sta la loro necessità, la loro urgenza. Ed è anche perché ci ha aiutato a porci simili domande che dobbiamo ringraziare Orazio Costa, questo maestro un po' distante ma sempre generoso, che con la signorile eleganza e la discrezione che gli sono state proprie per l'intera vita, ci ha da poco lasciati per sempre, trasmettendoci come sua preziosa eredità, più ancora che un modello di teatro, un esempio di vita.



Pontedera-Teatro Era GROTOWSKI -Novembre 2010
LEZIONE DI LUCA RONCONI
dal blog http://www.palco.it/ di Renzia D'Incà


Sabato scorso, in un luogo di impegno, di risorse intellettuali e creative internazionali, di ipotesi di rigenerazione, anche per trasmissione di saperi ed esperienze- si materializza il regista cult, l'europeo Luca Ronconi. Di fatto Luca, è l'unico regista che abbia, da decenni, fama della nostra origine italiana, all'estero. Almeno in campo teatrale.



E' presentato da Federico Tiezzi. Che lo introduce citando il Forster di Casa Howard- rimando nel rimando còlto dal collega Gianfranco Capitta, anche coordinatore della serata- "only connected". Only connected? di che? bè, ovvio agli addetti ai lavori:di architettura, musica, danza..
Nel 1976-78, a Prato, Luca Ronconi crea il Laboratorio del Fabbricone -in assoluta e totale libertà espressiva che- dice-segnò l'inizio per la scena, di una rielaborazione dopo Copeau, con la Sant'Uliva e dopo gli esperimenti fiorentini di quel genio di Gordon Craig, con il The Mask.
Dice Capitta- Ronconi ha fatto di Prato una capitale del teatro d'avanguardia. Inventore e protagonista insieme, Ronconi negli anni Settanta già lavorava a Vienna come a Zurigo, riconosciutocome maestro di teatro internazionale. In Italia aveva avuto la sua consacrazione con Orlando furioso, ma dopo la chiusura del laboratorio a Prato aveva lasciato il Belpaese per altri lidi.
Ronconi-continua Capitta- arriva in Toscana e fonda un progetto pedagogico unico e straordinario facendo di Prato una capitale europea di teatro.
 L'idea- ribatte Luca- non è nata da me ma dalla città di Prato. Io allora ero direttore artistico della Biennale di Venezia dove avevo portato Grotowski, Bob Wilson(una esperienza fondamentale del secolo passato, anche per il teatro musicale, Mnukine, Peter Brook...e ho scatenato molti mugugni.

-Eri stato insegnante in Accademia Silvio D'Amico negli anni Settanta.
-Sì, venivo da Roma.La sala del Metastasio raccoglieva molto pubblico della Pergola (alluvionata nel '66).
-Luca, tu non amavi gli attori che si distraevano-a Roma molti facevano anche telvisione, tu hai anche insegnato in Accademia Drammatica dopo il diploma.
-Per me è essenziale la disciplina: a Prato gli attori facevano solo il lavoro di Laboratorio. Io volevo allora e tuttora voglio pensare ad un attore come elemento fondamentale della drammaturgia. Un attore deve saper leggere un testo. Un attore è un co-autore. Puntare al lavoro di conoscenza anche nell'errore. Marisa Fabbri è stata un esempio molto ben riuscito del mio Laboratorio. A Prato abbiamo avuto maestri come Luigi Nono, Umberto Eco,Gae Aulenti, anche se alcuni ci hanno rotto le scatole con "l'interdisciplinarietà"
-Il teatro è una categoria o una pratica?
-L'interdisciplinarietà allora dava fastidio, c'era chi si chiedeva:"che cosa ci può essere di profondamente teatrale in altre arti?". Di ciò se ne occupava allora Dacia Maraini, che aveva fondato a Prato il laboratorio sul Linguaggio, cioè come usare l'esperienza teatrale come una possibile forma di conoscenza. Noi specificavamo il senso del fare laboratorio nel senso di un "luogo dove l'artigiano esercita il suo lavoro". Niente di teorico, quindi. Lavorare su un testo e moltiplicare le possibili letture è stato un must.
- In quegli anni fortunati in cui erancora possibile capire( l'interferenza politica poi è diventata più forte) fino a che punto si poteva spingere il teatro rispetto agli spettatori..
-E' stato un periodo felice perchè non era ancora codificato. E' stato una cosa nuova perchè era avvertito come necessario. Come non ancora nominato.
I rapporti con la città non furono sempre idilliaci. C'era un equivoco di fondo. Io sapevo cosa potevo fare. Loro, i politici, avrebbero desiderato più un servizio che un valore.Ci hanno accusato di sperpero di pubblico denaro. Era allora in corso un conflitto fra PSI e PCI. Noi prendevamo il minimo sindacali di allora (oltre che essere obbligati alla residenza). Veniva finanziata una attività teatrale che faceva pochissime repliche e non era un prodotto commerciale. Per qualche anno Prato è stata messa accanto alle più importanti città teatrali europee di teatro...
Attualmente dirigo la scuola del Piccolo a Milano anche se non sono un didatta. Non ho un mio metodo. L'obiettivo che mi prefiggo è di lavorare per far stare bene gli attori. Il nostro lavoro può essere salvifico o patogeno. Mi spiego: l'Accademia di Roma accoglie ogni anno 30-35 ventenni che decidono di voler fare gli attori. A Prato non è stato così. Erano tutti attori già formati. Marisa Fabbri è stata una attrice strepitosa!
Oggi si stanno molto diversificando le categorie attoriali. In Accademia c'era un modo solo, quello di Orazio Costa o Sergio Tofano. Oggi non è più così. Ci sono attori in formazione che vogliono fare TV. Altri cinema.
-Una ricetta per attori e registi, oggi?
- Chiedersi quale futuro teatrale voglio? Elaborare possibilità future e non applicare codici già esauriti. Inventare qualcosa di necessario.



martedì 29 marzo 2011

ENRICO DI MARCO- PER COSTA


Enrico Di Marco  è stato allievo di Costa al MIM. Attore, vive e lavora a Firenze dove insegna Mimica nel corso di Laurea in Storia del teatro presso l'Università degli studi.
Enrico Di Marco in Arlecchino

Di Marco ci ha gentilmente concesso questo documento tratto dagli Atti del Convegno sul Ruolo dell'improvvisazione  nell'insegnamento dell'arte drammatica svoltosi a Bucarest nel 1964.


INSTITUT INTERNATIONAL DU THEATRE
CENTRE ROUMAIN

LE ROLE DE L'IMPROVISATION
DANS L'ENSEIGNEMENT DE L'ART DRAMATIQUE


RENCONTRE INTERNATIONALE DE BUCAREST 1 — 12 avril 1964



ITALIE
Orazio Costa
Metteur en scène, Professeur de mise en scène à l'Académie d'Art Dramatique de Rome
Viale Parioli, 10, Roma

Ruggiero Jacobbì
Journaliste metteur en scène, Directeur d'art dramatique du « Piccolo Teatro »
Piccolo Teatro, Roma

Italo Dall'Orto Etudiant
Giuliana Falcetta Etudiante
Enrico Di Marco Proietti  Etudiant
Annarosa Saia Etudiante

P A Y S - B A S

Erik Vos
Metteur en Scène, Directeur de la Compagnie theatrale' « Die Nieuwe Komedie/Arena » de Hagu, professeur à l'Academie d'Art Dramatique d'Amsterdam

P O L O G N E
Ccsato Eduard
Rédacteur en chef de la R.evue « Teatr » et « Thédtre en Pologne », Professeur à l'Ecole supérieure de Théatre de Varsavie, Secretaire général du Centre Polonais de I.I.T.
Aleja Armid Ludowej, 6, Ap. 79, Warszawa



REPUBLIQUE DEMOCRATIQUE ALLEMANDE

Prof Armin Gerd Kuckhoff
Recteur de l'Ecole Supérieure de Théatre de Leipzig

Schwiegerhenstr, 3, Leipzig C. 1


Prof. Karl Egstein
Professeur à l'Ecole Supérieure de Théatre de Leipzig

Schwiegerhenstr, 3, Leipzig C. 1


Gero Hammer
Représentant de la Direction des Théatres du Ministère de la
Culture

Molkenrnarkt, 1—3, Berlin C. 2


Rudolf Penka
Directeur de l'Ecole d'Art Dramatique de Berlin

Staarl. Schauspielschule, Berlin, Niederschdneweide

Dr Gerhard Tiens
Chargé de cours à l'Ecole d'Art Dramatique de Berlin

Schoselierstr,, 104, Berlin





Igebord Regener
Représentant de la Section des Ettablissements Scolaires du Ministere e de la Culture

Molkenmarkt, 1 — 3, Berlin C.2







QUARTA GIORNATA, 10 APRILE 1964


Signor J. Th. Brooking
Signore e Signori é un grande piacere per mepresentarvi questa mattina il signor Orazio Costa, di Roma, che non ha certo bisogno dì essere presentato, grazie alla sua ben conosciuta attività nel teatro come regista, e in parte come professore. Insegna all'Accademia Nazionale di Roma ed ha portato qui alcuni dei suoi allievi di questa scuola; avremo mododi vederli all'opera questa mattina. All'Accademia Nazionale dirige i corsi di regia ed allo steso tempo dirige anche quelli di arte drammatica al centro Sperimentale del Cinema di Roma. E' altresì professore di regia d'opera al Conservatorio Musicale dell'Accademia Santa Cecilia.


COSTA

L'insegnamento alla scuola di recitazione dell'Accademia Nazionale d' Arte Drammatica, comprende quattro corsi di recitazione, un corso di educazione alla voce, un corso dì trucco e un corso di regia. .

E' questo corso che ha il ruolo di dare un senso unitario a tutto lìnsegnamento attraverso la ricerca e l'applicazione di un metodo di lavoro di cui avete avuto un primo approccio a Bruxelles in merito alla preparazione fisica dell'attore.

Il ruolo dell'improvvisazione in questo metodo è assai importante, ma sarebbe diffìcile di fare degli esempi senza farvi prima un riassunto di questo procedimento riguardo alia formazione dell'attore.

Il punto di partenza è il far risaltare al massimo l'istinto mimico, E' grazie a

questo che gli allievi rifiniscono la loro preparazione fisica, ritrovando fin dai primi momenti la loro attitudine a l'espressione Immediata,

Noi differenziamo l'attività mimica da quella imitativa mostrando che è l'attività mimica ad essere strettamente legata alla parola e all'espressione come operazioni originarie; mentre è grazie all'attività imitativa che manteniamo i risultati dell'invenzione.

Spieghiamo all'attore che una manifestazioni in primis del suo spirito creativo ed artistico, è un'nterpretazione della natura, di cui ne traspone gli aspetti in termini mimici dando loro immediatamente un significato sentimental,secondo le conoscenze interiori che lui ha delle variazioni della sua forma fisica.

Si osserva prontamente che i! corpo può dare, di un determinato fenomeno, tre traduzioni mimiche diverse tra loro, secondo i! mezzo corporeo utilizzato.

Il corpo Intero (traduzione mimica integrale)

Le mani ((traduzione manuale).

Il viso (traduzione facciale).

Attraverso esercizi appropriati, si sottolinea che il viso traduce sovente l'espressione mimica integrale per mezzo di uno scambio che procede dalle membra al viso e in seguito dal viso alle membra. Ed è su questo ritorno che si "differenzia la mìmica manuale.
I gradii successivi degli esercizi( che alcuni di voi hanno potuto conoscere, grazie alla presentazione effettuata a Bruxelles), sono studiati per ridare all'attore le sue possibilità espressive originali e che l'educazione ha, in un primo tempo, fatto uso, per poi reprimerle e condizionarle. Ci applichiamo in modo da rendere mimicamente i diversi aspetti della natura, con una successione che va dalle forme evidentemente più trasponibili a quelle che non hanno alcun legame apparente con le forme fisiche dell'uomo e nonostante ciò ritrovano in noi ( come lo provano tutte le mitologie) una radice di similitudine così autentica quanto difficilmente spiegabile.

Un momento molto importante del procedimento è quello che ha per base questo corollario del principio mimico: qualsiasi condizione mimica che viene a turbare la condizione di tranquillità dell'individuo, genera una modifica analoga nel suo apparato respiratorio e fonetico. Ciò equivale a dire che ogni condizione mimica integrale ha una sua espressione particolare.

E' il momento della presa di coscienza della voce nei suoi diversi aspetti espressivi( tono, colore, volume, tempo, ritmo).

Altro momento importante: Il passaggio dalla mimica del concreto alla mimica dell'astratto stesso (nei suoi rapporti con la grammatica).

Dopo questo primo periodo, quali sono le acquisizioni dell'allievo? Primo:la Personificazione. Ogni nuova forma tratta dalla realtà, propone un'idea di un nuovo individuo che ne avrebbe l'aspetto nel senso della forma e in quello più sottile della trasposizione psico-sentimentale della forma stessa salice piangente, candela,gatto, luna, vento, ecc) e appena subito dopo l'arricchimento della coscienza èsico-sentimentale individuale con tutte le forme che rivelano delle condizioniinteriori di sentimento.

Coscienza del processo di sintesi e del processo di analisi...
Coscienza delle tre forme mimiche di base: integrale, facciale, manuale.
Coscienza del ritmo come rivelatore del movimento proprio al fenomeno o alla forma analizzata, e in seguito degli impulsi dei sentimenti espressi. Coscienza del ritmo che dà proporzioni alleforme.Dei rapporti suono-forma( uccello, elefante)- ( alto, basso, grande, piccolo, sottile, lungo)
Coscienza della proprietà del proprio corpo di essere materia componente di un'operazione spirituale interpreto-creativa.
Scoperta dello stato plastico ideale e delle diverse tensioni muscolari...

Il secondo grado di questo metodo, procede con l'osservazione che la poesia ( così come qualsiasi altra forma artistica) deriva da questa attitudine a interpretare la realtà e a registrarne questa interpretazione sul mezzo indefinibilmente variabile del corpo ( la danza, la mimica) e poi su delle materie o per mezzi più stabili ( ma anche variabili): suoni e strumenti, colori, materie plastiche, e infine linguaggio.

La poesia ripete e registra attraverso la parola, i passi della scoperta mimica della realtà ( esteriore e interiore).

Adesso l'interprete della poesia; cosciente di questo processo, cerca di rinnovare in sé, accettando dalla realtà l'interpretazione che i! poeta dà nell'opera. La sua propria esperienza della realtà gli permette di considerare la poesia come una realtà nuova e di comunicare ai suoi simili (grazie alle capacità che ha in comune con loro e che sono riassunte nella mimica e nel linguaggio), le condizioni assolute dell'invenzlone poetica.

Già nel primo periodo del procedimento, si era spontaneamente realizzata un'operazlone singolare: l'indivlduazione da parte dell'allievo (seguendo le sue capacità Iintellettuali e immaginative) delle cime espressive del fenomeno che era l'oggetto della sua attenzione e della sua rappresentazione mimica. Risulterà adesso assai facile riconoscere che la poesia non agisce in altro modo, così come qualsiasi altra forma artistica e in particolare la poesia drammatica.

Per l'interpretazione della poesia le operazioni seguite dal nostro metodo sono le seguenti:

Semplice analisi logica del testo.
Analisi prosodica.
Individuazione dell'immagine e della sua massima espressione.

Infine, traduzione mimica dell'immagine, molto spesso eseguita in due tempi. Prima di tutto una visione d'insieme sintetica e in seguito una trascrizione plastica ben fedele alla forma dell'immagine e a quella, strettamente legata, dei ritmi e dei suoni.
Scelta dell'elemento oppure degli elementi da vocalizzare. Vocalizzazione.

Traduzione vocale di tutta l'Immagine con rapporto molto rigoroso con i diversi aspetti della trascrizione plastica.

Infine si tratterà di spogliare progressivamente la recitazione, raggiunta per via mimica, di qualsiasi eccesso di movimento che la gesticolazione avrà accumulato attorno.

Una scelta molto accurata potrà essere fatta per i gesti più originali che potranno essere stati trovati, per essere poi utilizzati nell'espressione finale e che sarà naturalmente guidata dai proprio gusto.

Questo gusto altro non e che un giudizio liberamente ispirato dall'insieme delle immagini e dalle nozioni critico-storiche oltre agli impegnì e i propositi assunti volontariamente,

II terzo periodo dell'istruzione dell'allievo-attore, secondo il nostro metodo, è l'esercizio all'interpretazione drammatica. Questo esercizio si propone di farne un interprete cosciente e liberamente disponibile ai suggerimenti della regia.

Si tratta di un lavoro che assomiglia molto a quello del regista, e il regista, secondo noi, segue, a suo modo, lo stesso procedimento.

L'allievo prenderà conoscenza del dramma. Una conoscenza prima di tutto narrativa e subito dopo strutturale, drammaturgica.

A questo punto saprà rendere la sua impressione mimica dell'aspetto de! dramma: comincia a sentirne i! ritmo. Potrà, oseremo dire; danzarne i tempi, i diversi motivi e momenti. Infine, potrà avvicinarsi a! suo personaggio.

Noi abbiamo visto che tutto è personaggio o allo stravolgimento del personaggio in questa concezione dell'intepretazione. Allo stesso modo anche tutto il dramma o tutta una scena, o una sempIice immagine.

La riduzione all'uomo di un concetto, di un'idea o di un sentimento, è il mezzo più sicuro per trasmettere all'uomo (spettatore) questa idea, questo sentimento. Si tratta di un mezzo di comunicazione alla stessa stregua che lo può essere un vocabolo.

Il personaggio rappresenta in un testo tutto ciò che si può attribuire a un solo nome.

Evidentemente gli appunti relativi al personaggio interesseranno il nostro attore nella misura in cui saranno necessari per dare a questo personaggio la consistenza voluta dall'autore; noi consideriamo arbitrario ogni ulteriore specificazione che di fatto lo appesantirebbe.

Al contrario, noi consideriamo di primissima importanza l'indlvìduazlone della massima espressività del testo drammatico di cui la disposizione forma la struttura visibilmente traducibile in Immagine. Ed è a queste immagini che si dovrà fare ricorso per dare vita ai personaggi e, attraverso loro, al dramma.

Il lavoro dell'attore può essere tradizionalmente seguito dalla prima all'ultima scena oppure in tutt'altra maniera che sembrerà più semplice o più intensa.

E' sulle scene legate esclusivamente all'immagine delpersonaggio che dirigeremo l'attenzione dell'attore e del suo lavoro mimico.

Ci sono dee testi dove le immagini si trovano allo stato immediato e semplice, altri dove dipendono piuttosto dal ritmo poetico; altri ancora che esigono un'analisi assai complessa per rivelare i suoi segreti in immagini.

Si tratterà allora di riprendere e di ampliare lo stesso procedimento seguito per l'interpretazlone della poesia facendo in modo di ritrovare questa volta la consistenza di una creatura umana, che non pretenderà a nessuna altra rassomiglianza che quella proposta dalle immagini che gli danno la vita.



Potete ben vedere che tutto questo lavoro non può essere concepito che in un regime continuo d'improvvisazione.

Questa improvvisazione diventa lentamente una funzione sempre più abituale e che si rivela essere capace d'accompagnare lo spìrito e l'esercizio dell'attore verso direzioni quanto mai inattese.

Essa costituisce la parte essenziale di tuta la sua preparazione. Inoltre offre i mezzi di ammorbidire le proprie capacità fisiche curando allo stesso tempo il loro costante rapporto con l'espressione. Gli permette

a ogni momento lo sviluppo psicologico di ognuno degli atteggiamenti che la realtà esteriore o interiore gli propone, e gli permette infine di affrontare e raggiungere la creazione di un personaggio atraverso un cammino tracciato nel seno stesso delle forze creative della poesia.

sabato 26 marzo 2011

ALESSANDRA NICCOLINI-PER COSTA

Alessandra Niccolini  è stata allieva di Orazio Costa al MIM di Firenze. Danzatrice e coreografa, ha insegnato il Metodo mimico alla Scuola di Bari diretta da Pino Manzari e all'Accademia  d''arte drammatica Silvio D'Amico di Roma fino al 2002. Attualmente vive e lavora a Firenze come docente di mimica presso le scuole di teatro: Scuola nazionale comici Massimo Troisi e CDRC.


Riflessioni sull'attitudine mimesica
1996

Nell'ambito del complesso sistema conoscitivo umano, prendiamo in esame l'aspetto più strettamente corporeo; astraendolo ( idealmente e momentaneamente ) dal contesto, al fine di permettere alcune riflessioni. Gli studi sull'intelligenza artificiale insieme a quelli sulla neurologia, ci hanno evidenziato come il processo conoscitivo si basi essenzialmente su un sistema bio-elettro-chimico e dunque corporeo e come questo stia alla base della capacità di comprendere in quanto " prendere con ". L'apprendimento non consiste solamente nel prendere informazioni, ma, piuttosto, nel!'interagire con queste. Un computer apprende e non comprende. Comprendiamo tramite risposte che si sviluppano come interpretazione della realtà. Ad esempio traduciamo i segnali elettrici prodotti dai fotoni che colpiscono i fotoricettori in quel mondo straordinario che è la visione.

Quando l'uomo prende contatto con la realtà circostante, utilizza i trasduttori sensoriali , che formano gli organi di senso, i quali trasmettono il segnale d'ingresso ad un sistema complesso di connessioni, in grado di elaborare dei segnali d'uscita che passano attraverso i neuroni collegati ai muscoli (motoneuroni).

Ogni segnale d'entrata cambia il nostro stato fisico, trasformando la situazione precedente. Se osserviamo questo fenomeno da un punto di vista macroscopico , ovvero del comportamento complessivo delle risposte umane ad un primo livello di contatto, possiamo rilevare un'analogia tra il segnale d'ingresso e quello in uscita. Il cambiamento fisico provocato da un evento esterno è della stessa qualità del segnale ricevuto. Un segnale improvviso, produce una risposta improvvisa; un segnale debole, una risposta debole; uno complesso una complessa. Si potrebbe dire che un'azione produce una reazione della stessa qualità, fisicamente analogica.

Dunque, l'uomo, nel prendere contatto con un fenomeno esterno, è come se tendesse a trasformarsi fisicamente, in modo analogico, con il fenomeno stesso. Questa ipotesi trova riscontro ogni qualvolta reagiamo con immediatezza ad uno stimolo. Un suono teso, ci tende fisicamente, un suono delicato ci rilassa. E questo accade prima di qualsiasi elaborazione successiva del suono. Quello che mi interessa analizzare è questa prima ed immediata risposta prelogica. La risposta è talmente istintiva che dobbiamo fare uno sforzo a rilassarci in presenza di un suono teso e viceversa. Affinchè la reazione sia rovesciata devono essere intervenute altre implicazioni. E' del resto, vero che un comportamento contrario lo riconosciamo come anomalo. Se l'intervento improvviso di un suono non trovasse alcuna risposta fisica in una persona, saremmo tentati di pensare che questa persona abbia qualcosa che altera quel comportamento che noi riconosciamo appartenerci istintivamente. Anche reazioni più complesse, ed analizzate nell'ambito degli studi psicologici, sono spesso rivelatici di questo primo rapporto fisico. Trovandosi di fronte ad uno spazio che si apre davanti , sentiamo come se anche il nostro corpo si aprisse. Mentre se lo spazio si restringe sentiamo come se anche il nostro corpo si restringesse. Il senso di claustrofobia è molto probabile che s'instauri dopo che il corpo ha assunto fisicamente e analogicamente la costrizione. Come potremmo provarlo se prima il corpo non lo avesse esperito?

" Nihil in intellectu quid prius fuerit in sensu " (assioma delle filosofia scolastica).

" Lo sviluppo dell'encefalo si apre all'ambiente che in qualche modo prende il posto dei geni " (Jean Pierre Changeux, "L'uomo Neuronaie", 1983. Edito in Italia da Feltrinelli 1993.).

Osserviamo cadere un oggetto, lo seguiamo con lo sguardo e proviamo il senso della caduta (come se anche noi cadessimo), vediamo oscillare qualcosa e sentiamo oscillare anche le nostre viscere fino ad un senso di nausea. Il rapporto che s'instaura tra noi e l'oggetto che cade od oscilla è d'identità analogica, provocata da questa prima ed immediata risposta fisica.

" Il peso, la pressione, la resistenza sono parti della nostra quotidiana esperienza corporea, ed il nostro istinto mimetico ci spinge ad identificarci con il peso, la pressione e la resistenza visibili nelle forme esistenti." ( Goffrey Scott "Architecture of Humanisme" 1914. Edito in Italia dalla Dedalo Libri, Bari, 1978 ).

Questo comportamento si può più o meno manifestare visivamente, in base alla portata dell'evento, alle circostanze o alla necessità di agire la variazione fisica.

Vedendo un mare calmo che si distende davanti ai miei occhi, posso percepire il distendersi delle mie membra, senza manifestare questa mìa azione interna; oppure scegliere di esternarla e, ad esempio, distendermi o aprire le braccia. Vedendo un mare in tempesta posso percepire un movimento fisico interno e non mostrarlo, oppure lasciarlo agire e magari mettermi a correre. Un bambino lo farebbe spontaneamente, un adulto no.

" Seduta sulla spiaggia a Noordwijk, guardo la mia nipotina danzare davanti alle onde del mare... come se possedesse qualcosa dello stesso ritmo, qualcosa della stessa vita...danza perché davanti ai suoi occhi danzano le onde, perché danzano i venti e perché può cogliere il ritmo della danza in tutta la natura. " ( Isadora Duncan, Noordwijk Aan Zee, 26 agosto 1906 ).


La nipotina della Duncan agisce liberamente la variazione fisica analogica, scaturita dal contatto con il mare seguendo un istinto indiscutibilmente presente in tutta la prima infanzia. Si potrebbe dire che i bambini agiscono i sensoriale e passano come un gioco danzato da uno stato fisico ad un altro, suggerito da tutto ciò che incontrano.

" Traboccante di mimesi, il piccolo anthropos, in certo modo, diviene tutte le cose, al di fuori di ogni linguaggi* sociale. E' il gatto che ghermisce il topo, è il cavaliere che frusta il suo cavallo; è la locomotiva che trascina vagoni; è l'aereo che solca il ciclo." ( Marcel Jousse (1955) "Antropologia del Gesto" Gallimard, Parigi,1974. Edito in Italia dalle Edizioni Paoline, Roma, 1979).

Abbiamo tutti esperienza della facilità con cui un bambino apra le braccia e voli o trotterelli come un puledro.
 II movimento delle nuvole, del vento, dell'ondeggiare degli alberi, il volo degli uccelli, il fremere delle foglie
acquistano un significato particolare per le mie allieve che imparano ad osservare la qualità particolare di ogn
movimento... quante volte ritornando da questi studi e rientrando in aula hanno sentito uno stimolo irresistibile
ad esprimere con il loro corpo i movimenti che avevano appena osservato (Isadora Duncan,1914, "Lettere dalla Danza", edito in Italia dalla Casa Husher nel 1980 ).

Negli esempi finora citati la variazione fisica analogica può anche non essere agita visivamente; ma nel rapporto attivo con la realtà circostante, l'azione si rende necessaria e si manifesta come agire analogico.
Se ci immergiamo nel mare, dove l'acqua è profonda, non per nuotare, solo per stare con l'acqua nell'acqua, ci accorgiamo che il nostro corpo prende un'attitudine diversa, si muove diversamente, in un modo che è più simile all'acqua. Se entrassimo rigidi e pesanti come un sasso, come un sasso andremmo a fondo. Se, invece, vogliamo prendere un sasso la mano assumerà forma e consistenza da sasso; e se prendiamo un foglio, delicatezza e consistenza da foglio.

Ogni contatto "primo" tra noi e la realtà circostante avviene attraverso questa metamorfosi analogica e si potrebbe dire che crea l'accesso al processo conoscitivo.

"L'uomo conosce soltanto ciò che riceve dentro di sé e ciò che rigioca."

E' questo il meccanismo della conoscenza  attraverso i nostri gesti di rigioco; non potremo mai conoscere ciò che è del tutto fuori di noi. Possiamo conoscere soltanto ciò che abbiamo intussuscepzionato". ( Marcel Jousse, ibidem )

Questo processo conoscitivo che Jousse chiama intussuscepzione si manifesta con evidenza nel bambino come nel primitivo e in tutto ciò che di bambino e di primitivo rimane nell'adulto civilizzato.

I Tasmaniani, popolazione oggi scomparsa e giunta ad un livello di civilizzazione corrispondente a quello delle
civiltà primitive più avanzate, possedeva un rito magico del temporale: si rotolavano a terra e battevano il suolo con le mani. Essi imitavano con il loro corpo il lampo ed il tuono, provocandoli ex analogia , e, nello stesso tempo, l'energia da essi creata era trasmessa attraverso la loro tensione estatica alla terra e la soggiogava." (Curt Sachs,1933, "Storia della Danza" . Edito in Italia dal II Saggiatore, 1966).

Curi Sachs parla di ex-analogia, ma l'analogia risulta evidente. Rotolano come un tuono; e non è rotolante il
rimbombo di un tuono? Si gettano a terra così come si scarica a terra un fulmine. Certo è che cercano un contatto con il fenomeno per possederlo al fine di controllarlo. Se nella lotta per la sopravvivenza gli animali sono dotati di artigli, denti, veleni, l'uomo è dotato di questa curiosa attitudine.

" L'uomo si trasforma nelle sembianze di ogni carne, nel genio di ogni creatura, perché di natura varia,
multiforme e incostante".

Così Pico della Mirandola ci descrive nella sua "Orazione sulla Dignità dell'Uomo", fondando su questo la grande libertà dell'uomo".
Una delle tendenze spontanee che abbiamo è quella di scoprire sembianze umane in tutto ciò che ci circonda da oggetti ad animali, cioè il comportamento antropomorfico. Ma come può una realtà esterna all'uomo essere identificata con l'uomo, senza che quest'ultimo non si sia prima identificato con questa? Se riconosciamo il comportamento antropomorfico ammettiamo implicitamente anche quello metamorfico. Anzi l'antropomorfosi potrebbe essere considerata come la conseguenza inevitabile della metamorfosi.
Gli uomini sentono che è necessario immaginare se stessi tutt'uno con le forze che combattono e dalle quali essi sono separati imperfettamente, forse momentaneamente amiche, ma che possono volgersi in ostili." (Jack Lindsay, "Breve Storia della Cultura", Bramante Editore, Milano, 1965 ).
L'essere "tutt'uno con il tutto" per controllare una natura irrequieta e pericolosa era la tensione in cui viveva l'uomo dei primordi.
Come posso dominare una realtà esterna a me, nella stessa misura in cui domino me stesso, se questa non diventa me, ovvero io non divento questa ?
Ciò che fa essere una realtà altra da me è un fattore principalmente fisico; attraverso il contatto tendo all'eliminazione dell'interruzione fisica che intercorre tra me e l'oggetto, cercando una sorta di prolungamento del mio corpo in quell'oggetto.

 "Quando evoca i fenomeni della natura, quando con la magia crea l'uragano, la pioggia, il vento; il danzatore assume in genere caratteri sovrumani."( Curt Sachs, ibidem )

II fenomeno naturale urgeva un controllo, l'uomo ha attuato il suo prolungamento e, non potendo effettuare un contatto reale , ha eliminato la separazione fisica tra lui e il fenomeno, con un'invenzione che Sachs chiama magia. L'uomo primitivo ha inventato infiniti modi di essere in simbiosi con i pesi, le forme, le tensioni, i ritmi di ciò che voleva possedere ed ha inventato un corpo uragano, pioggia, fuoco, tigre.....
In questa attitudine umana si può evincere un primo momento in cui un segnale, una in-pressione (pressione da fuori a dentro ) interviene a creare un mutamento e un secondo momento in cui il mutamento, in quanto meta-morfosi (forma altra) si manifesta come risposta ex-press\a (che da dentro preme fuori).
La scoperta di un aspetto espressivo ci porta in un ambito artistico. Ma la condizione espressiva da sola non è sufficiente per l'atto artistico, se non comporta anche Tatto creativo, inteso come capacità inventiva. Se ben
guardiamo in questa risposta fisica analogica troviamo il momento inventivo, che altro non è se non l'invenzione del rapporto analogico tra il nostro corpo e l'oggetto, ed il modo con cui operiamo l'analogia.
L'analogia è l'invenzione, cioè la nostra istintiva "poiesis" intesa come fare creativo.
Quando aiutiamo una persona a prendere "confidenza" con l'acqua gli diamo suggerimenti fisici quali "non
irrigidirti" o "non tenderti", cioè la invitiamo a cercare un'attitudine fisica analoga all'acqua. Non gli diamo
indicazioni precise di come porsi del tipo "metti la testa a destra o il piede a sinistra", ovvero non gli risolviamo il compito. La persona dovrà inventarsi come porre il suo corpo nell'acqua, come adattarsi all'acqua. Inventerà il suo corpo-acqua. Così come nessuno ci mostra come predisporre una mano per prendere un oggetto, è soluzione che troviamo grazie alla nostra capacitò inventiva.
Questa modalità conoscitiva ci rivela un'attività espressiva e creativa, dunque artistica, promossa dalla straordinaria capacità del nostro corpo di interagire con il mondo circostante.
Un'intelligenza priva di un corpo, per quanto diligente nel risolvere problemi di matematica, non potrebbe
arricchire le nostre interazioni con il mondo esterno.... l'idea è di considerare seriamente l'apprendimento come associazioni di segnali in entrata con segnali in uscita...La barriera è l'inabilità dei sistemi sviluppati finora (sta parlando dell'intelligenza artificiale) di evolversi da soli, di imparare senza bisogno di essere interamente programmati." ( Tomaso Poggio, "L'Occhio e il Cervello", Theoria, Roma Napoli, 1991).
Stiamo, dunque, parlando di un'attitudine che è insieme conoscenza ed arte, intelligenza e creatività. Questo ci richiama alla mente quell'attitudine umana che Aristotele chiama "mimesis".

"Due cause appaiono in generale aver dato vita all'arte poetica, entrambe naturali: da una parte il fatto che la "mimesis" è connaturata agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l'uomo si differenzia dagli animali, nell'essere più portato alla "mimesis" e nel procurarsi per mezzo della " mimesis" le nozioni fondamentali ) dall'altra il fatto che tutti ne traggono piacere." ( Aristotele, "Poetica", traduzione di Diego Lanza per la Rizzoli ).

Aristotele usa il termine "mimesis" che Diego Lanza traduce imitazione (come traducono tutti ), ma nessuno fa riferimento ad una metatesi da" mim- in -im " e le origini etimologiche dei due termini pur risultando oscure non coincidono. Pertanto ho lasciato il termine greco. Parla anche di "poiesis" nell'accezione di fare creativo come indubbiamente è il fare del poeta. Dunque per Aristotele la" mimesis" genera la" poiesis". A questo punto è difficile dubitare che vi sia creazione nella" mimesis". A maggiore conferma c'è un passaggio successivo in cui afferma:

"Poiché dunque noi siamo naturalmente in possesso della capacità "mimesica", della musica e del ritmo,dapprincipio coloro che per natura erano più portati a questo genere di cose, con un processo graduale dalle improvvisazioni dettero vita alla poesia."

Parla di un processo graduale dalle improvvisazioni, dunque di un procedimento, un percorso; ed è il percorso che permette la creazione.
Facciamo l'ipotesi in cui ci trovassimo ad apprendere dei movimenti eseguiti da un'altra persona, in questa
circostanza non utilizzeremmo un percorso d'improvvisazione (non dovendo inventare nulla) cercheremmo solo di ripetere. Ora un atto di ripetizione, senza invenzione personale mi pare che non si possa chiamare mimesico in quanto privo di creazione. Trovo più appropriato il termine "imitazione" dal latino "imitari" da "imago" cioè immagine. La proposta è, pertanto, che un atto mimesico debba contenere un atto espressivo creativo, mentre quello imitativo debba contenere quello espressivo ma manchi di quello creativo. Se accettiamo questa proposta possiamo osservare che, quando ci relazioniamo con realtà molto distanti da noi dal punto di vista morfologico, come i fenomeni naturali, siamo costretti ad un procedimento analogico e dunque inventivo, dal momento che non possediamo la stessa struttura del fenomeno. Non possiamo imitare una nuvola, ripetere cioè "l'imago", non abbiamo nessuna similitudine morfologica per poterlo fare. Possiamo invece realizzare una mimesi della nuvola, inventandoci un modo nuvola di essere con il corpo, trovando una leggerezza da nuvola, un'impercettibilità del movimento della nuvola. Che la mimesi di cui parla Aristotele si riferisca anche ai fenomeni naturali lo capiamo dal fatto che prima di lui Piatone ne parlava già in questi termini:

" E non crederà forse che non ci sia cosa indegna di lui, si da mettersi con tutta serietà a praticare ogni sorta di "mimesi" davanti ad un grande pubblico, anche quelle che ora dicevamo, tuoni, rumori di venti, di grandine, di argani e di pulegge, suoni di trombe, di aulòi, di siringhe, e di ogni genere di strumenti, e poi latrati, belati e
versi di uccelli? e non si baserà tutto sulla "mimesi" nella voce come negli atti?" ( Platone, La Repubblica, Libro III, traduzione di Franco Sartori per Laterza.)


Quando parla di mimesi dei suoni degli strumenti musicali, si potrebbe pensare che imitassero con il corpo il
suonatore e con la voce il suono, e quando parla di versi degli animali sì suppone che con il corpo prendessero forma dell'animale e quando parla di tuoni e di venti non si può che dedurre che prendessero forma di tuono e di vento con il corpo come con la voce. In un passaggio precedente parla anche di "scrosciare di fiumi e di fragore di mari ". Non c'è dubbio che si possa parlare di mimesi in relazione ai fenomeni naturali.
In conclusione chiameremo, pertanto, mimesi , l'attitudine di cui abbiamo fin qui trattano riconoscendole al contempo una funzione cognitiva ed artistica.
Mi piace esprimere una sintesi di quanto detto in questi termini: l'attitudine mimesica è la chiave di accesso della comprensione. L'intelligenza è un'atto artistico e l'atto artistico è l'unico atto intelligente.




1) IN CHE SENSO LA MIMESI SI PONE COME PROCESSO ANALOGICO ?

Come capacita' di assumere con il corpo qualità' simili a quelle che riscontriamo nella realta' che incontriamo. Come quando la nostra mano trova una delicatezza per prendere un foglio o una consistenza nel prendere una pietra. Come quando il nostro corpo nell'immergersi nell'acqua trova un condizione di fluidità',

2) PERCHE' INTENDERE SEPARATAMENTE LA MIMESI DEL CORPO E DELLA VOCE ?

L'attitudine mimesica essendo un attività' organica umana non comporta separazione tra corpo e voce, tra corpo e mente, tra conoscenza ed arte; anzi propone il superamento di questa dicotomia attuata dalla nostra cultura.

Il recupero dell'attitudine mimesica in persone adulte, allontanate dalla consapevolezza di questa loro competenza da un educazione che ha creato la frattura, può' partire da questa frattura per ricomporre l'unita'. Credo pero' che questo comporti dei rischi quale quello di creare un'equivoco, che emerge proprio dal fatto che viene posta questa domanda.

3) CHE APPLICABILITÀ' HA IL METODO MIMESICO RISPETTO ALLA RECITAZIONE ?

Il metodo mimesico è una modalità' per il recupero
dell'attitudine mimesica, quindi non e' il metodo che si
applica alla recitazione, ma l'attitudine mimesica.

Credo che l'attitudine mimesica non sia uno strumento da
applicare alla recitazione, ma l'attitudine da cui nasce l'atto
"attoriale".

Un attore agisce mimesicamente anche se non ha recuperato
consapevolemente la sua mimesi con il metodo mimesico.

Un attore consapevole può' trarre il massimo dei frutti dalla
sua capacita' mimesica.

Se per applicazione si intende un uso strumentale e tecnico
allora si parla di recitazione in quanto mestiere all'interno
di un mercato e non di arte all'interno di una continua
ricerca. Al mestiere dell'attore la mimesi offre un contributo
come allenamento alle variabili espressive del corpo e della
voce. All'arte dell'attore come occasione di ripartire
dall' " uomo attore" per ripensare un modo diverso di intendere
l'atto attoriale e il suo teatro.

4) LA MIMESI COME METODO DI FORMAZIONE ITALIANO ?

Non ci sono  altri metodi italiani per la pedagogia dell'attore


CONSIDERAZIONI  ALLA COMPRENSIONE DELLA COMPETENZA MIMICA
Il PROCESSO RELAZIONALE DELLA PERCEZIONE



I recenti studi nell'ambito delle neuroscienze, delle scienze cognitive, dell'intelligenza artificiale e delle teorie evoluzionistiche, stanno sempre più evidenziando l'urgenza di ricomporre la dicotomia operata dal pensiero filosofico-scientifico tra cervello, mente, corpo, emozioni; ma l'idea che sia l'intero organismo a interagire con l'ambiente trova ancora scarso credito.

Tomaso Poggio (ricercatore per la Robot Motion presso il M.I.T) in "L'Occhio e il Cervello" pubblicato da Theoria nel 1991, afferma:

"Un'indiscussa assunzione di fondo della ricerca sull'Intelligenza Artificiale deve comunque essere che lo scopo dell'intelligenza è di arricchire le nostre interazioni con il mondo esterno e aumentarne il controllo".


Un'intelligenza priva di un corpo, per quanto diligente nel risolvere problemi di matematica, non potrebbe realizzare questo fine se non fosse in grado di percepire il mondo e di agire in esso. La robotica, lo studio di unire percezione ed azione, è dunque un'aggiunta cruciale all'Intelligenza Artificiale". Più avanti afferma inoltre: "Una chiave importante per capire l'intelligenza è l'apprendimento Un sistema in grado di migliorarsi attraverso l'apprendimento, attraverso l'esplorazione dell'ambiente si merita l'attributo di intelligente. La barrièra è l'inabilità dei sistemi sviluppati finora di evolversi da soli, di imparare senza bisogno di essere interamente programmati". Poggio ci evidenzia come la cognizione si basi sulle capacità di percepire, ricevere, elaborare, trasformarsi, evolversi e interagire con il mondo circostante; ovvero fruizioni fondanti dell'apprendimento, facoltà a sua volta fondante dell'intelligenza. Peraltro afferma che affinchè possa esistere un' intelligenza è necessario che esista un corpo.

Douglas R.HOFSTADTER, uno dei maggiori esponenti di Scienza Cognitiva e Informatica, in "Concetti Fluidi e Analogie Creative, pubblicato dall'Adelphi nel 1995, riconosce come indispensabile lo studio della percezione: "Spesso i ricercatori di Intelligenza Artificiale tentano di creare modelli di concetti ignorando la percezione. Ma si è visto come i processi percettivi costituiscano il cuore delle capacità cognitive umane.E' un errore separare i processi concettuali dal substrato percettivo su cui si fondano e si intrecciano".

QUALITÀ' DEL SUBSTRATO PERCETTIVO

Quando l'uomo prende contatto con la realtà circostante, utilizza i trasduttori sensoriali, i quali trasmettono gli impulsi in ingresso, ovvero l'informazione sensoriale grezza, ad un sistema complesso di connessioni che permettono, l'elaborazione della percezione a basso livello in percezione ad alto livello. La visione, ad esempio, prende le mosse dalle configurazioni bidimensionali che la luce produce sulla rètina e termina con una descrizione degli oggetti in termini di forma, colore, consistenza, grandezza, distanza, movimento....

Antonio R. Damasio in "L'errore di Cartesio" pubblicato da Adelphi nel 1995, ci offre una descrizione accurata: "Quando vediamo, udiamo, tocchiamo, gustiamo, annusiamo, all'interazione con l'ambiente partecipano il corpo e il cervello".Immaginate di contemplare uno dei vostri paesaggi preferiti: entra in gioco ben più che la rètina o le cortecce visive del cervello. Si potrebbe dire che, mentre la cornea è passiva, il cristallo e l'iride non solo lasciano passare la luce ma correggono la propria forma e dimensione reagendo alla scena che gli si apre davanti. Successivamente, i segnali riguardanti il paesaggio vengono elaborati all'interno
del cervello. Via via che le rappresentazioni disposizionali di diverse aree cerebrali attivano internamente la conoscenza di quel paesaggio, il resto del corpo partecipa al processo. Alla fine quando del paesaggio visto si è formato un ricordo, questo sarà una registrazione neurale di molti dei cambiamenti dell'organismo: alcuni hanno luogo nel cervello stesso altri hanno luogo nel corpo".

Questo processo profondamente complesso evidenzia che la modalità con cui noi riceviamo segnali
esterni contiene una elaborazione e trasformazione sia dell'organismo che del segnale.
Infatti la risposta finale di una visione non sarà mai espressa in questi termini: "Ho ricevuto un tot
numero di fotoni dal cristallino e dall'iride dell'occhio sinistro" ma piuttosto diremo: "Ho visto un
magnifico paesaggio".
Il segnale in entrata non rimane identico a se stesso perché nel riceverlo il nostro corpo cambia si
trasforma e trasforma a sua volta il segnale. Potremmo dire che la nostra visione è una
rappresentazione, un'interpretazione. Damasio si esprime in questi termini: "Percepire l'ambiente
non può ridursi al cervello che riceve segnali diretti da un certo stimolo, tanto meno al cervello che
riceve figure dirette. L'organismo si modifica attivamente; il corpo non è passivo. Percepire è tanto
ricevere segnali dall'ambiente quanto agire su esso. Gli eventi mentali sono il risultato dell'attività
che si svolge nei neuroni del cervello; ma vi è una storia precedente e indispensabile che essi
devono narrare: la storia del disegno e del funzionamento del corpo".
Dunque potremmo dire che per attivare la percezione dobbiamo modificare attivamente l'organismo
nel suo complesso. La qualità della materia di cui siamo fatti ci offre questa competenza che
nessuna macchina ancora può eguagliare, ovvero la capacità di con-prendere anziché prendere le
informazioni. Un computer, infatti, è in grado di prendere informazioni, ma non di comprenderle.
La ricezione da parte di un computer non comporta un cambiamento nella materia di cui è fatto. Il
computer non varia con il variare delle informazioni ricevute e per questo non trasforma le
informazioni, non interpreta i dati, non si evolve e non interagisce con la realtà.
Alla base di questa impotenza c'è la materia di cui è fatto, così come alla base della nostra
competenza cfè la qualità della materia di cui siamo fatti.
E' in corso la realizzazione di computers organici che sfruttino il DNA umano. Questo sviluppo
della ricerca conferma il valore nodale della qualità ricettiva della materia.
Potremmo definire plastica la qualità della nostra ricezione in quanto plastica la materia impegnata
alla ricezione ed elaborazione dei segnali provenienti dal mondo esterno, e questa qualità è la stessa
nel corpo come nel cervello.
Da questo ed altri punti di vista è fuorviante proseguire nella definizione separata di funzioni
correlate interdipendenti che vanno considerate come un unico organismo vivente composto della
stessa materia in evoluzione.


LA RELAZIONE NELLA PERCEZIONE

Non era questa la finalità dell' intelligenza di cui parlava Poggio? E, molto probabilmente, è ciò verso cui ha portato l'evoluzione.

Damasio ipotizza:

"Lo sviluppo di una mente, che in realtà significa sviluppo di rappresentazioni della quali si possa acquisire coscienza come immagini, offrì agli organismi un nuovo modo di adattarsi alle circostanze ambientali che non si sarebbe potuto prevedere nel genoma. E' probabile che la base di tale adattabilità abbia avuto inizio con la costruzione di immagini del corpo in funzione, cioè immagini del corpo che risponde all'ambiente esternamente e internamente. Se il cervello si è evoluto in primo luogo per assicurare la sopravvivenza del corpo, allora quando comparvero cervelli dotati di mente essi cominciarono col rpor mente al corpo'. E per tutelare la sopravvivenza del corpo con la più grande efficacia possibile, la natura- io credo - s'imbattè in una soluzione molto potente: rappresentare il mondo esterno in termini di modificazioni che esso provoca nel corpo, cioè rappresentare l'ambiente modificando le rappresentazioni primoridali del corpo ogni volta che si ha un'interazione tra organismo e ambiente".

Potremmo, in conclusione definire la relazione della percezione del mondo esterno come una rappresentazione organica dell'organismo nel suo complesso, ovvero la rappresentazione il processo relazionale della percezione come processo fondante della cognizione.



DOCUMENTI gentilmente concessi da Alessandra Niccolini

BRANI TRATTI DA "STORIA DELLA DANZA" DI CURT  SACHS
TEMI E MODULI COREUTICI / DANZA IMITATIVA


GLI INDIVIDUI SENSITIVI DEL TIPO DEI CHAMACOCO NON SONO SPINTI DALLA VOLONTÀ', MA DA NECESSITA' QUANDO RISPONDONO A UN DETERMINATO STIMOLO CON UN ATTO MIMICO: UN ESPLORATORE NARRA CHE QUANDO I MARUTSE DEL SUDAFRICA DURANTE UNA MARCIA INTONANO UN CANTO DI BARCAIOLI, SI METTONO A PARE INVOLONTARIAMENTE I MOVIMENTI DEI REMI. DANZE DI IMITAZIONE ANIMALE.

TRA QUANTO PUÒ' ESSERE IMITATO, L'ANIMALE DEVE ESSERE PER IL DANZATORE UN MODELLO D'INTERESSE UNICO: SEMPRE IN MOTO IN CERCA DI NUTRIMENTO, ALL'ATTACCO O IN FUGA, E CONTINUAMENTE DIVERSO NEI SUOI MOVIMENTI, TANTO VICINO E NEL CONTEMPO TANTO DIVERSO DALLE MOVENZE DEGLI UOMINI DA AFFASCINARLI E ATTRARLI OGNI VOLTA DI NUOVO.

MOLTE TRIBÙ' SONO CONVINTE DI AVER IMPARATO LA DANZA DAGLI ANIMALI, DALL'ORSO, DAL CERVO, DALL'AQUILA, DAL TACCHINO. E HANNO TRATTO PROFITTO DA QUESTO INSEGNAMENTO; CONOSCITORI DI POPOLI PRIMITIVI, SPECIALMENTE DEI PIGMEI DELL'AFRICA, AMMIRANO LE FACOLTÀ' DI OSSERVAZIONE E DI RAPPRESENTAZIONE QUASI INCONCEPIBILI IN INDIVIDUI APPARTENENTI A UN LIVELLO DI CIVILTÀ' PALEOLITICA, ESSI SANNO IMITARE ALLA PERFEZIONE NON SOLAMENTE I MOVIMENTI DEGLI ANIMALI CHE SONO LORO FAMILIARI, MA ANCHE LE ORME DEI LORO PASSI.

DANZA DELLA FARFALLA, DELLA VERGINE DEL VILLAGGIO,NELL'ISOLA DI SAMOA: ECCO LA DANZATRICE CADERE SULLE GINOCCHIA, SALTARE, PRENDERE LO SLANCIO E DIBATTERSI QUASI FOSSE UNA FARFALLA,
FINCHE: si RANNICCHIA PIEGANDO LE GINOCCHIA E GIRANDO su SESTESSA. LA DANZA DELLA FANCIULLA DI SAMOA VIENE ESEGUITA COMUNEMENTE DA TUTTI I DANZATORI GIAPPONESI. ANCH'ESSI ASSUMONO ORA LA PARTE DELLA FARFALLA, VOLPEGGIANDO CON LEGGEREZZA, ORA QUELLA DI RAPITI CONTEMPLATORI E DI CACCIATORI, CHE CERCANO INVANO DI AFFERRARE LA LORO PREDA.

DANZA DELL'ACCOPPIAMENTO DEGLI UROGALLI : NEL NACHSTEIGEN DELLO SCHUHPLATTLER, IL GIOVANE NON ESEGUE SEMPLICEMENTE UNA DANZA CON LA SUA RAGAZZA, MA FACENDOLE LA CORTE, SCHIOCCANDO LA LINGUA, BISBIGLIANDO E BATTENDO LE MANI, LE SALTA DIETRO O ACCANTO, BATTE I PIEDI A TERRA E FA UN PAIO DI SALTI OPPURE UNA CAPRIOLA. INFINE A BRACCIA ALLARGATE O PENZOLONI SI PRECIPITA VERSO LA FANCIULLA O SALTA IMPROVVISAMENTE COME SPICCANDO IL VOLO VERSO DI LEI, DOPO AVER BATTUTO CON VIOLENZA UNA O TUTTE E DUE LE MANI AL SUOLO.

DANZA DELLA FOCA DEGLI YAHGAN DELLA TERRA DEL FUOCO: GLI UOMINI ACCOCCOLATI SI DONDOLANO, ANNUSANO A DESTRA F A SINISTRA, SI GRATTANO IL PETTO E SOTTO LE BRACCIA E GRUGNISCONO.
I BOSCIMANI DEL KALAHARI DANZANDO FANNO UN'IMITAZIONE INSUPERABILE DEI SALTI COMICISSIMI COMPIUTI DALL'ANTILOPE DAVANTI ALLA FEMMINA E I-PAPUA IMITANO LA CORTE D'AMORE DI DUE UCCELLI,


L'ACCOPPIAMENTO NON E' IL SOLO TEMA, FANNO PARTE DELLA DANZA INNUMEREVOLI ALTRI FATTI DELLA VITA DEGLI ANIMALI: LE LOTTE, L'IRRUZIONE DELLA TIGRE NELL'OVILE CHIUSO, LA TARTARUGA QUANDO DEPONE LE UOVA, IL PICCOLO CALAO NUTRITO DAI CALAO ADULTI, I PICCHI O LE SCIMMIE QUANDO SI ARRAMPICANO SUI TRONCHI DEGLI ALBERI.

ALL'ORIGINE DI QUESTE DANZE NON C'È' MAI IL DESIDERIO DI DARE SPETTACOLO.

NELL'EUROPA PALEOLITICA NELLO STILE FRANCO/CANTABRICO UN RINVENIMENTO FATTO NELLA CAVERNA TUC D'AUDUBERT NEL DIPARTIMENTO FRANCESE DI ARIEGE: SUL SUOLO VI SONO TRACCE FORMANTI UN CIRCOLO DI TALLONI APPARTENENTI, SI RITIENE, A GIOVANI FANCIULLE, CINQUE TRACCE, LASCIANDO IL CIRCOLO, CONDUCONO A DUE FALLI DI ARGILLA, E SULLE PARETI SONO RAFFIGURATI BISONTI NELL'ATTO DI SLANCIARSI. COSI' UN CASO FORTUNATO CI HA FATTO CONOSCERE UNA DANZA DI INIZIAZIONE, NELLA QUALE I NOVIZI, ABBANDONANDO I NORMALI MOVIMENTI UMANI, IMITANO L'ORMA DEL BISONTE, APPOGGIANDO A TERRA SOLO IL TALLONE. ALTRI ESEMPI DI DANZA ANIMALE GLI ABBIAMO NELL'AUSTRALIA DEL NORD CON LA DANZA DELLA TARTARUGA QUANDO DISPONE LE UOVA, PRESSO GLI ATXUABO DELL'AFRICA ORIENTALE, LA DANZA DELLA CAVALLETTA PER LA CERIMONIA DI INIZIAZIONE DELLE FANCIULLE, E PRESSO I DINKDA DELLA VALLE DEL NILO LA DANZA DEI BUOI. INFINE LA DANZA ANIMALE RIGUARDANTE L'INFANZIA, CHE SOPRAVVIVE ANCORA AI NOSTRI GIORNI IN EUROPA, NEL GIROTONDO DELLA MARMOTTA, DEL LEPROTTO NEL FOSSO, DEL LUPO E DELLE OCHE, DEL GATTO E DEL TOPO. IL MODELLO DI QUEST'ULTIMO GIROTONDO LO TROVIAMO NELLA DANZA DELLO SPIRITO DEL PICCOLO CONIGLIO DEI SIPAYA NEL BRASILE SETTENTRIONALE. NON DIMENTICHIAMO POI DANZE COME IL GIROTONDO DELLA VOLPE, L'ACERIDANZA BASCA, E CHE ANCHE IL FOX TROT E' STATA UNA DANZA ANIMALE.

QUESTI ESEMPI SONO SUFFICIENTI A COMPRENDERE COME LA DANZA ANIMALE PORTI IN SE' IL DESTINO DI UNA CONTINUA SNATURALIZZAZIONE. LA NECESSITA' DI STABILIZZARE I MOVIMENTI IN UNA DANZA ORDINATA E DI PRIVARLI DI OGNI CARATTERE REALE PORTA SEMPRE PIÙ' A TOGLIERE NATURALEZZA AGLI ATTEGGIAMENTI. IL MODO DI MUOVERSI DELL'ANITRA SI TRASFORMA FACILMENTE IN UN SEMPLICE PASSO IN POSIZIONE ACCOCCOLATA; IL BIZZAÙRO ANDIRIVIENI DEL RAMPICANTE SI MUTA IN SALTI REGOLARI ALTERNATI A DESTRA E A SINISTRA;IL MODO DI SCUOTERE LA TESTA DEL TACCHINO, DIVENTA UN MOVIMENTO RITMICO DEL COLLO ALL'INDIETRO, IL RASPARE DELLE GALLINE UN COMUNE STRASCICARE DI PIEDI. A CIO' SI AGGIUNGE L'INFILTRARSI DELLA DANZA ANIMALE NEL CERIMONIALE DELLE FESTE

PIÙ' DIVERGE, SPECIALMENTE NEI RITI DI FERTILITÀ' DI OGNI GENERE. QUI LA DANZA ANIMALE PERDE LE SUE CARATTERISTICHE AL PUNTO DA RENDERE TALVOLTA DIFFICILE GIUSTIFICARE IL NOME ANIMALE CHE PORTA.


NELLA DANZA ANIMALE VI SONO GLI STESSI RAPPORTI E PROBLEMI CHE TROVIAMO NELLA STORIA DEGLI ELEMENTI DECORATIVI: SI TRATTA DI ASTRAZIONE E DI GEOMETRIZZAZIONE DI UN MOTIVO ANIMALE OPPURE DI UNA ZOOMORFIZAZIONE DI UN MOTIVO ASTRATTO E GEOMETRICO? ANCHE QUESTI PROBLEMI APPARTENGONO A QUELLI CHE NON POSSONO AVERE UNA RISPOSTA IN ALCUN MODO SICURA-/ DANZE DI FERTILITÀ'.

I TASMANIANI,POPOLAZIONE OGGI SCOMPARSA E GIUNTA A UN LIVELLO DI CIVILIZZAZIONE CORRISPONDENTE A QUELLO DELLE CIVILTÀ' PRIMITIVE PIÙ' AVANZATE, POSSEDEVA UN RITO MAGICO DEL TEMPORALE MOLTO COMPRENSIBILE: SI GETTAVANO A TERRA,SI ROTOLAVANO E BATTEVANO IL SUOLO CON LE MANI E CON I PIEDI. ESSI IMITAVANO CON IL LORO CORPO IL LAMPO E IL TUONO, PROVOCANDOLI EX ANALOGIA, E NELLO STESSO TEMPO L'ENERGIA DA LORO CREATA ERA TRASMESSA ATTRAVERSO LA LORO TENSIONE ESTATICA ALLA TERRA E LA SOGGIOGAVA.

PER IMITARE IL VENTO NELLE LORO DANZE GLI ARANDA, POPOLAZIONE TOTEMICA PURA DELL'AUSTRALIA CENTRALE, AGITANO RITMICAMENTE DEI RAMI DI CAUCCIÙ'. SU UNA PITTURA PARIETALE EGIZIA, RISALENTE ALLA DODICESIMA DINASTIA (1900 a.C.) DEL REGNO MEDIO, A BENI HASSAN, NELL'ALTO EGITTO, TRE DANZATRICI ESEGUONO UNA PANTOMIMA, INTITOLATA, IN GEROGLIFICI, IL VENTO. UNA DELLE DANZATRICI, IN PIEDI, SEMBRA PASSARE IL BRACCIO TESO SULLA CIMA DEGLI ALBERI, LA SECONDA SI CURVA SOTTO QUESTO BRACCIO, COME FAREBBE UNA PALMA, LA TERZA COME UNA CANNA FLESSIBILE SI PIEGA A PONTE. ECCO UN RITO MAGICO DEL TEMPORALE IN UNA FORMA IN CUI L'ARTE DOMINA SENZA CHE LA MAGIA OPERI, MA CHE HA SENZ'ALTRO COME PRECEDENTE UNA VERA E PROPRIA AZIONE MAGICA. FATTO SINGOLARE  CHE, QUASI QUATTROMILA ANNI PIÙ' TARDI, VERSO IL 1849/50, DURANTE UNA SUA VISITA IN EGITTO, GUSTAV FLAUBERT COSI' SCRIVEVA A LOUIS BAULHET A PROPOSITO DI DANZATORI TRAVESTITI DA DONNA: "A VOLTE ESSI SI ROVESCIANO A TERRA SUL DORSO, COME UNA DONNA CHE GIACE DISTESA, E SI ALZANO CON UN MOVIMENTO  DELLE RENI COME UN ALBERO CHE SI RADDRIZZA DOPO CHE IL VENTO E' PASSATO".

QUANDO EVOCA I FENOMENI BENEFICI DELLA NATURA, QUANDO CON LA MAGIA CREA L'URAGANO, LA PIOGGIA E IL VENTO, IL DANZATORE ASSUME IN GENERE CARATTERI SOVRUMANI.
RADICI ED I KAI DELLA MUOVA GUINEA MINAVANO QUELLA DEI FRUTTI. CIO' CHE NOI TROVIAMO PIÙ' SPESSO , E CHE RISULTA D'ALTRA PARTE PIÙ' CONFORME AL PENSIERO PRIMITIVO, E' L'IDENTIFICARSI DEL DANZATORE NON COL SOGGETTO MA CON L'OGGETTO DELL'ATTIVITÀ' AGRICOLA. UNO DEI MOTIVI FAVORITI LO PRESENTA LA DANZA SALTATA: TANTO PIÙ' ALTO SARA' IL SALTO TANTO PIÙ' ALTO CRESCERÀ' IL GRANO. QUESTA CONCEZIONE SI RISCONTRA ANCHE NELLE TRADIZIONI RIGUARDANTI LA SEMINA IN GERMANIA, IN INGHILTERRA, BOEMIA E BULGARIA. UNA CONCEZIONE SIMILE ESISTE SIA NELL'ANTICO MESSICO SIA PRESSO I KURNAI, POPOLO DELL'AUSTRALIA SUD ORIENTALE, NELLE CUI DANZE SI SOLLEVANO IN ALTO I BAMBINI PER FARLI CRESCERE. ANCHE IL PASSO LUNGO SEMBRA UN MOTIVO PER FAVORIRE LA CRESCITA. NEL LANGAUS DELLE CERIMONIE NUZIALI DEL BADEM, ANCORA FINO A QUALCHE TEMPO FA VENIVANO ESEGUITI PASSI COSI' LUNGHI CHE I DANZATORI QUASI VOLAVANO. PERCIÒ' E' INDUBBIO CHE IL RARO MOTIVO DELLA DANZA DEI TRAMPOLI, LE CUI TRACCE SI RITROVANO ANCORA NEI GIOCHI DEI NOSTRI BAMBINI, ABBIA COME FINE LA FERTILITA'. ESEMPI DI QUESTA DANZA SONO RISCONTRABILI IN AFRICA, PRESSO I NEGRI DEL CAMEUN OCCIDENTALE, E PRESSO GLI AKAMBA OCCIDENTALI E I MAKONDE;  E NEI MARI DEL SUD PRESSO I MAORI DELLA NUOVA ZELANDA, ALTRI NEL GIAPPONE ODIERNO E NEI SATIRI E FAUNI DEL DRAMMA GRECO. IN GIAPPONE QUESTA DANZA, COME QUELLA DEI SALTI DELL'INDONESI , FA PARTE DI CERIMONIE CAMPESTRI, E ANCHE NEGLI ALTRI CASI A NOSTRA CONOSCENZA,L'IDEA DI FERTILITA' E' SEMPRE PRESENTE, COME NELLE FESTE DEL PLENILUNIO E DEI MORTI NEL CAMERUN, NELLE CERIMONIE DI INIZIAZIONE DEGLI ADOLESCENTI PRESSO I MAKONDE. QUANTO ALLE DANZE DEI SATIRI, IL LORO SIGNIFICATO E' EVIDENTE.


BRANI TRATTI DA " LETTERE DALLA DANZA " DI ISADORA DUNCAN


L'odierna scuola di balletto, lottando inutilmente contro le leggi naturali della gravità ed operando in disaccordo contro le leggi naturali della gravità ed operRANDO IN DISACCORDO CON LA
NATURA, PRODUCE MOVIMENTI STERILI.
A TUTTI COLORO CHE APPREZZANO QUESTI MOVIMENTI IO DICO: "SOTTO
LE MAGLIE E SOTTO I TUTÙ' DANZANO MUSCOLI DEFORMATI, E SOTTO
ANCORA OSSA DEFORMATE, UNO SCHELETRO DEFORMATO STA DANZANDO
DIFRONTE A VOI.
IL BALLETTO SI CONDANNA DA SOLO PERCHE' IMPONE LA DEFORMAZIONE
DEL CORPO MERAVIGLIOSO DELLA DONNA. NESSUNA RAGIONE STORICA O
COREOGRAFICA PUÒ' AVERE LA MEGLIO SU QUESTO ARGOMENTO.
LA VERA DANZA E' APPROPIATA ALLE FORME UMANE, MENTRE LA FALSA
DANZA E' QUELLA CHE SI ADATTA AD UN CORPO DEFORMATO.
DISEGNATEMI LA FORMA DELLA DONNA COME E' IN NATURA E POI
DISEGNATEMI UNA DONNA CHE INDOSSA UN MODERNO CORSETTO E LE
SCARPETTE DI RASO USATE DALLE nOSTRE DANZATRICI. PER LA PRIMA
FIGURA SAREBBERO POSSIBILI TUTTI I MOVIMENTI CHE PERCORRONO LA
NATURA, TROVEREBBERO IN LEI IL TRAMITE NATURALE PER LA LORO
ESPRESSIONE. ALLA SECONDA FIGURA QUESTI MOVIMENTI SAREBBERO
IMPOSSIBILI E DOVREBBERO ALLORA PROCEDERE PER LINEE GEOMETRICHE
PRESTABILITE BASATE SU LINEE RETTE. ESATTAMENTE QUELLO CHE HA
FATTO LA SCUOLA DI DANZA ODIERNA.
LA DANZA E' COSTITUITA DA CENTINAIA DI PASSI CHE SONO STATI
SCRITTI NEI LIBRI DOVE CI SONO TUTTE LE REGOLE DEI MAESTRI DI
BALLO, MA LA DANZA NON CONSISTE IN QUESTO: LA DANZA E'
COSTITUITA DAI MOVIMENTI DEL CORPO UMANO IN ARMONIA CON QUELLI
DELLA NATURA, E SE LA DANZA NON SI ACCORDA CON QUESTI E' FALSA.
UNA COMPOSIZIONE DI PASSI ARBITRARI E DERIVATI DA COMBINAZIONI
MECCANICHE NON PUÒ' PRETENDERE DI COSTITUIRE UN'ARTE.
UN BAMBINO INTELLIGENTE RIMANE SBALORDITO NEL VEDERE COME NELLE
SCUOLE DI BALLETTO SI INSEGNINO MOVIMENTI CONTRARI A TUTTI
QUELLI CHE EGLI FAREBBE SPONTANEAMENTE.
MI SEMBRA CRIMINALE AFFIDARE DEI BAMBINI A QUESTO ADDESTRAMENTO
TANTO DANNOSO.
FATE CHE IL BAMBINO DANZI COME UN BAMBINO!
SEDUTA SULLA SPIAGGIA GUARDO LA MIA PICCOLA NIPOTINA DANZARE
DAVANTI ALLE ONDE DEL MARE. CONTEMPLO A LUNGO LA VASTA DISTESA
D'ACQUA CHE SI AGITA E CHE SCORRE VIA ETERNAMENTE, ONDA DOPO
ONDA, SOLLEVANDO LA SPUMA BIANCA. A LUNGO RIMANGO IN
CONTEMPLAZIONE E MI SEMBRA CHE LA SUA DANZA IN RIVA AL MARE
RACCHIUDA, IN PICCOLO, L'INTERO PROBLEMA A CUI STO LAVORANDO.
DANZA PERCHE' DAVANTI AI SUOI OCCHI DANZANO LE ONDE, PERCHE'
DANZANO I VENTI E PERCHE' PUÒ' COGLIERE IL RITMO DELLA DANZA IN
TUTTA LA NATURA.
QUANDO AVEVO 15 ANNI E MI RESI CONTO CHE NESSUN INSEGNANTE MI

AVREBBE POTUTO AIUTARE NEL MIO DESIDERIO DI DIVENTARE UNA
DANZATRICE, MI DIEDI ALLO STUDIO DELLA NATURA COME AVEVO VISTO
FARE DA TUTTI GLI ALTRI ARTISTI ECCETTO I DANZATORI; E STUDIAI
PER LE MIE DANZE IL MOVIMENTO DEI FIORI QUANDO SI SCHIUDONO, IL
VOLO DELLE API E L'ELEGANZA DELIZIOSA DELLE COLOMBE E DEGLI
ALTRI UCCELLI. HO LETTO DELLA DANZA DEGLI ELEFANTI ALLA LUCE
DELLA LUNA, QUANDO SOLLEVANO MAESTOSAMENTE LE LORO PROBOSCIdI.
LA MIA INTENZIONE E' QUELLA DI FONDARE UNA SCUOLA IN CUI NON
INSEGNERÒ' ALLE BAMBINE AD IMITARE I MIEI MOVIMENTI, MA
A TROVARE I PROPRI. LA MIA SCUOLA IN NESSUN MODO SARA' LA COPIA
DELLA MIA DANZA, MA LO STUDIO DELLA DANZA COME ARTE.
STUDIATE IL MOVIMENTO DELLA TERRA, IL MOVIMENTO DELLE PIANTE,
DEGLI ALBERI, IL MOVIMENTO DEI VENTI E DELLE ONDE E TROVERETE
CHE OGNI COSA NATURALE AGISCE NELL'AMBITO DI UN'ESPRESSIONE
ARMONIOSA.
IL MOVIMENTO DELLE NUVOLE, DEL VENTO, DELL'ONDEGGIARE DEGLI
ALBERI, IL VOLO DEGLI UCCELLI, IL FREMERE DELLE FOGLIE,
ACQUISTANO UN SIGNIFICATO PARTICOLARE PER LE MIE ALLIEVE CHE
IMPARARONO AD OSSERVARE LA QUALITÀ' PARTICOLARE DI OGNI
MOVIMENTO. SVILUPPANO UNA SENSIBILITÀ' CHE LE RENDE CAPACI DI
COMPRENDERE QUESTI MOVIMENTI.
QUANTE VOLTE RITORNANDO DA QUESTI STUDI E RIENTRANDO IN AULA,
LE ALLIEVE HANNO SENTITO UNO STIMOLO IRRESISTIBILE AD ESPRIMERE
CON IL LORO CORPO I MOVIMENTI CHE AVEVANO APPENA OSSERVATO.
COL TEMPO ARIVERHANNO A COMPORRE LE LORO DANZE. MA ANCHE
DANZANDO INSIEME, OGNUNA CONSERVERÀ' LA PROPRIA INDIVIDUALITÀ'
CREATIVA, PUR ESSENDO SOTTO L'ISPIRAZIONE DI TUTTO IL GRUPPO.
TUTTE LE PARTI INSIEME COMPORRANNO UN'UNICA ARMONIA CHE FARÀ'
RIVIVERE LA BELLEZZA DEL CORO DRAMMATICO, IL CORO DELLA
TRAGEDIA.
NEGLI ANTICHI MITI GRECI GIOVE APPARE A SEHELE COME LUCE, A
DANAE SOTTOFORMA DI UNA NEBBIA D'ORO, AD EUROPA IN FORMA DI
TORO E A LEDA COME CIGNO BIANCO. QUESTA E' LA VERA DANZA,
QUELL'ELEMENTO CHE S'IDENTIFICA CON OGNI PARTE DELLA NATURA E
DIVENTA, DI VOLTA IN VOLTA, UNA NUVOLA, UNA NEBBIA, UN FUOCO,
UN TORO O UN CIGNO BIANCO.
AL RITMO DELLE PAROLE DEL CORO GRECO SI DANZA FACILMENTE.
IL RITMO DEL CORPO UMANO E IL RITMO DELLA MUSICA CONTEMPORANEA
SONO IN COMPLETO DISACCORDO. ANCHE IL GESTO PIÙ' SEMPLICE NON RIESCE A TROVARE IN QUESTE NOTE UNA LINEA DA SEGUIRE..
INSEGNANDO AGLI ALLIEVI IL SIGNIFICATO DI UNA POESIA, CHE RITENEVO OGNI BAMBINO POTESSE CAPIRE E IMPARARE A MEMORIA, DOMANDAVO QUALCOSA SUL SIGNIFICATO DEI VERSI, LA RISPOSTA ERA UNA CONFUSIONE DI PAROLE. aLLORANPRENDEVO LA STESSA POESIA ED INSEGNAVO AI FANCIULLI A TRADURLA IN MOVIMENTO E DANZARLA E VEDEVO CHE ATTRAVERSO IL MOVIMENTO AVEVANO REALMENTE COMPRESO CIO' CHE ERA RIUSCITO INCOMPRENSIBILE.





PINO MANZARI- PER COSTA


La difficile arte dell'ascolto

Pino Manzari è uno degli allievi  storici di Orazio Costa. Diplomatosi all'Accademia nazionale d'arte drammatica Silvio D'Amico, è stato, giovanissimo, scelto da Costa per interpretare ruoli da protagonista ne Il Mistero e La Vita Nova. Ha portato avanti il magistero del maestro dirigendo l'esperienza straordinaria della Scuola mimica a Bari. E' riconosciuto da tutti gli ex allievi come figura istituzionale di riferimento per il Metodo Mimico applicato, secondo le indicazioni del maestro.

Mi metto in ascolto.., ecco... : vramm... cirp... tung... bang.., snap e poi l'atteso inevitabile crack;vengono da fuori a confondersi con l'usuale domestico tramestio «nel cuore rumoroso della casa», alla Kafka... ma debbo scrivere sull'ascolto e pur sospeso sull'orlo incomodo dei rumori devo riappropriarmi del silenzio...penso a quanto tempo della mia vita di teatrante è stato dedicato all'ascolto, alle infinite ore di prova per fare nostre parole di altri, masticando suoni, ruminando... Penso alla paziente, ostinata decifrazione dei minuti segni neri sulle pagine bianche dei copioni per costringerli a rivelarci i cerimoniali, gli spazi e perfino i gesti, le posture, la direzione degli sguardi di altri tempi... provando e riprovando pur di riuscire a fare presenti, nel qui e adesso del palcoscenico, vite altre dalle nostre. Ci spingeva a questa avventura la convinzione che la nostra fatica di esistere e il nostro desiderio di essere vivi avrebbero tratto luce e forza dai testi che affrontavamo, purché avessimo il coraggio di mettere fra parentesi l'io nostro, spesso così convinto di sé, per gli io altri che il testo ci offriva perché li prendessimo con noi. Per esprimere la vita di un altro, l'io era costrettto a umiliarsi, a volte fino alla rinuncia, fino a mutare la sua voce propria, che è come dire il corpo proprio, per essere corpo e voce data con ricchezza di timbri e di toni, e con risonanze vocaliche e vibrazioni e percussioni consonantiche, a un altro da sé.

Nel nostro porci davanti al testo per lasciarci inabitare, nel faccia a faccia o nel corpo a corpo con il testo, come avviene a volte nella prova teatro, non appare un modello esemplare di cosa sia ascoltare e dialogare? L'ascolto esiste, si sostanzia, non con l'apertura pura e semplice del sistema chiuso del-10,l'io, accogliendo l'altro, ma quando l'altro suscita in me un movimento necessario, diventa per me un cammino da percorrere. «Questo è lo strano: ognuno conosce se stesso mille volte meglio, sa di sé mille volte di più di quel che sa di un altro, anche il più vicino, e tuttavia l'altro non ci appare mai così frammentario, così lacunoso, così incoerente come noi appariamo a noi stessi» ha detto George Simmel nel suo diario l. L'altro che in qualche modo mi parla di sé, pure se è povero e misero, mi appare un groviglio esuberante di vita, ricco di profonde esperienze... e la vita che nell'altro risuona diventa la scoperta di un campo di libertà, sco­pro che la mia stessa vita non è costretta nella necessità di un destino marcato, non è una strada a senso unico, ma piuttosto un flusso di alternative possibili. II complesso mistero dell'altro che mi è stato dato di intravedere, che è stato palpabile e sensibile, anche solo per un istante, è diventato conoscenza di me. Nell'incontro ci scopriamo non più semplici e inerti spettatori della vita ma viandanti di interni labirinti interpellati a sceglierci nella libertà. Immersi nel culto della tecnica possiamo essere tentati di cercare forme ideali che ci si impongano, perché assumendole ci liberiamo del peso della scelta e della libertà; ma ognuno finisce sempre col trovarsi nella sua unicità irripetibile. La voce che mi ha manifestato la vita, di un altro mi appare sempre trascendente rispetto alla immagine di vita che io finora mi ero proiettata. Ora posso procedere con e grazie all'altro, prendo parte attiva alla costruzione dell"altro in me; egli avrà più spazio in me nella misura in cui sarò l'ascoltatore del suo mistero, ora lo costruisco insieme a lui mentre sono da lui costruito. L'ascolto mi ha permesso di trovare un compagno di strada, ci troviamo insieme coinvolti on una avventura comune.

Sto parlando, naturalmente, di un teatro che non si occupa di produrre spettacoli come oggetti estetici inerti ma si considera l'occasione di un invito, di una convocazione estesa a gruppi, attori e e spettatori, perchè procedano insieme costruendo e ricostruendo sulle macerie dei loro fallimenti.Quando apprendiamo a cercare il senso di ogni frammento che compone una storis, non tentiamo di sottrarci alla precarietà e alla finitezza della nostra vicenda, ma sappiamo che individuato un senso sarà necessario disappropriarcene per andare oltre, in un interminabile processo esplorativo, verso quei sensi ulteriori che la prima scoperta ci annuncia.



“ Ogni risultato raggiunto apre all'artista l visione di ciò che non è stato ancora raggiunto» ha detto Fiedler.

Se ora, oggi, dicendo, dò vita al personaggio che mi è toccato in sorte, o se lo spettacolo ha oggi trovato questa forma è solo perché è sempre in gestazione un nuovo e più vero dire, una diversa rappresentazione,

Ma è possibile ancora oggi credere così tanto nella Parola che è origine e sostanza dell'ascolto? Ascoltamo Theodor Adorno: «Gli ascoltatori sono ormai incapaci di un ascolto concentrato e si abbandonano come rassegnati a ciò che scorre sopra di loro, La musica viene percepita come uno sfondo sonoro; se nessuno è più in grado di parlare realmente nessuno è nemmeno in grado di ascoltare». Ascoltiamo il poeta Hugh Auden: «I lettori hanno imparato a consumare anche la migliore narrativa come se fosse minestra in scatola, così come hanno imparato a degradare la musica più grande a semplice sottofondo per lo studio o la conversazione. .».



«Dici. Che dici? Sterili minimi strìdi

còlti qua e là fra gli infiniti

entro un secchiello di sassi

che un bimbo su un greto di millenni

sceglie (come viene) fra milioni...

Estremi rantoli,

pietosi germogli non fioriti,

promesse escluse,

lacci lisi, forme sfiancate,

ritagli, scampo! i, rottami,

gretole, penne» ossicini.

rimasugli, briciole di sanie, di carie,

esche, cenni, carnicci...)2





Ci dice la voce di poeta del nostro stesso Maestro, Orazio Costa, che ci ha educato nel culto della parola viva.... E non viviamo forse in città assordate dal rullo continuo dei tam-tam del villaggio-globale, dove la morte stessa non è più sienzio ma urlo insensato? Eppure Roland Bharthes, con nitida e spietata lucidità, afferma che «l'ascolto parla», nascosto chissà in quali recessi circola ancora per disgregare la rete rigida dei ruoli di parola tradizionali, e arriva a dire: «Non è possibile immaginare una società libera, se si accetta che in essa siano mantenuti gli antichi luoghi d'ascolto: quelli del credente, del discepolo, del paziente»3.

Bisogna ancora dunque e sempre demolire, possiamo solo lasciare avanzare il deserto?

No, dobbiamo piuttosto tornare alla parola che intima; ritrovare la forza di rottura della parola che brucia con ardore i luoghi comuni, le stanche convenzioni, la lettera morta, e ascoltare la voce profetica di Franz Rosenweig che denuncia come falsi i fascinosi versi del Faust di Goethe:



«II sentire è tutto

il nome è soltanto un suono, un fumo

una nebbia che vela lo splendore del cielo»



Dobbiamo tornare a farci discepoli del «dito puntato del nome».

«Il nome non è rumore e fumo ma parola e fuoco... dove la parola viene udita là è finita con il tacere, con il mutismo, e insieme col clamore, il grido, il verso animale. E dove il fuoco brucia non c'è freddo, non c'è oscurità. Tutto questo c'è ancora, certo, ma solo dove la parola e il fuoco non sono ancora penetrati. Ma alla parola non sono stabiliti confini, la parola risuona attraverso il tempo, dì bocca in bocca, e il fuoco si espande nello spazio» 4.

Il nome, dunque, non è mai confuso sentimento e neppure può essere ridotto a semplice significante, indizio dell'inconscio, da scrutare con sospetto, senza mai consentire che il significato emerga all'ascolto, come vorrebbe certa psicoanalisi; perché è per natura sua un suono, cioè un avvenimento, un fatto fisico, un'onda penetrante, una energia che modifica comunque la realtà, un fuoco dunque alimentato dal soffio dello spirito di cui, respirando., viviamo.

Ascolto e parola sono le emergenze dell'eterno dialogo che ci costituisce, di cui siamo tessuti: « Il fatto è che il dialogo, se è veramente apertura all'altro se è buona volontà e non una certa qual molle attesa, ma attiva volontà di ricevere, di ascoltare, di cercare di uscire da se stesso per ammettere l'universo dell'altro, non può spingersi fino alle estreme conseguenze senza essere l'immolazione di uno dei partner, senza cioè rinnegarsi in quanto dialogo... D'altra parte la dissim­metria della rinuncia è una negazione del dialogo.... Allora il vero dialogo non sarebbe soltanto lo scambio tra due coscienze, la comunicazione di due universi mentali, ma la costruzione di un mondo nuovo attraverso l'immolazione di due partner pronti ad aprirsi alla creazione» (Raymond Carpentier in Les hommes devont l' echec, Parigi. 1968),

II teatro quando è vissuto come proteica volontà di mutazione, come cammino di crescita di una identità che rigioca i suoi confini, ci riconsegna umiliati alla parola e allora il farsi discepolo vuol dire imparare ad obbedire, alla lettera ob-audire. ad agire così come le parole ci invitano, ad attuare in conseguenza dell'ascolto, perché se il nostro destino è la parola, un semplice flatus vocis, «l'uomo è pur sempre il linguaggio di Dio» .





1 Citato in H. H. von Balthasar, Teodrammatica, Milano, ed, Jaca Book, 1980, p. 604.

2 O. Costa Giovangigli, Luna dì Casa, Brescia, Vallecchi. 1992, pp. 127-28

3 R. Barthes, L'ovvio e l'ottuso, Torino, Einaudi, 1985. p. 250.

4 F. Rosenzweig, La stella della redenzione. Casale Monferrato, ed. Marietti. 1985.

5 R Menahem-Mendel dì vitebsk, in E. WIESEL. Celebrazione Hassidica, Milano, Spirali edizioni, p. 81.



DOCUMENTI gentilmente concessi da Pino Manzari

LAUDI MEDIEVALI DAL "PICCOLO" DI MILANO



Rivive nel cantiere il "Mistero "cristiano

Il regista Orazio Costa ci propone una sacra rappresentazione in un ambiente di lavoro dove la fatica dell'uomo s'incontra con i suoi più alti ideali spirituali E' l'indicazione di un programma per il teatro contemporaneo?

Milano, febbraio II « Piccolo teatro della Città di Milano » ha vinto la battaglia artistica forse più difficile e impegnativa della sua lunga, felice, innovatrice e discussa attività teatrale. Lo diciamo subito, senza preamboli, con schiettezza, anche perché non credevamo, fino a sipario calato, che la proposta di rappresentare al teatro Lirico il « Mistero della natività, passione e resurrezione di Nostro Signore » (laudi medievali dei secoli XIII e XIV riunite ed elaborate da Silvio D'Amico per la regìa di Grazio Costa) riuscisse a superare gli scogli, i pericoli, le stesse ingenuità del testo, il didatticismo, la visione idillica della storia sacra come la psicologia dei personaggi sacri.

Lo stesso D'Amico (il « Piccolo », riproponendo il « Mistero », intende recare un contrbuto sincero e riconoscente al Maestro nel decimo anniversario della morte ) poneva nel 1937 un interrogativo cui dobbiamo, oggi più di ieri, dare una risposta. Diceva, dunque, D'Amico: potrà una rappresentazione di questo genere essere soltanto una curiosità storica? Soltanto un tentativo di riavvicinare, con i nostri mezzi, alla nostra sensibilità una pura e trepida poesia medioevale? o, per caso--da un tale - riavvicinamento. riscopriremo che la 'sostanza di questo « mistero » non certo per merito del suo compilatore e nemmeno dei suoi candidi eppur sanguigni poeti, ma dall'afflato evangelico e popolare che lo pervade, non è medioevale, non è legato ad un determinato tempo, ma è sempre attuale perché eterna?

Dal 1937 ad oggi la società italiana è, almeno nelle apparenze, irriconoscibile.

Ci troviamo di fronte da un lato a conquiste nuove, o ritenute tali, e dall'altro a un riesame totale e spesso polemico di sistemi, concezioni, attitudini e atteggiamenti morali che erano ritenuti robustamente ancorati a

polemiche proponendo un testo che supera e trascende i limiti del tempo, offrendo immagini immediate e incisive in una libera interpretazione pur nel solco della scrittura, il diffuso sentimento di un evangelismo fervido, caldo, non esornativo, drammatico, di illuminante ispirazione sociale e collettiva hanno preparato il terreno per arriivare ad una comprensione che si è trasformata in un fervido consenso.

La curiosità storica, di cui D'Amico temeva, cede di fronte allo spirita e alla luce poetica che il « Mistero » ha suscitato. La pura e trepida poesia medioevale.



Il misticismo di Jacopone, l'anima popolare del Trecento sono diventate, nella regia di Orazio Costa, ragione di intimo tormento e di drammaticità, tanto appassionato, fede salda e vivente, angoscia e gioia che la stessa fede promuove e suscita, senza distruggere, intellettualizzando i personaggi, il nucleo di poesia pura.

Costa ha evitato la rievocazione di un mondo evangelico, sia pure in chiave stilistica goticizzante e giottesca, come quella sacralità e misteriosità che oggi potrebbero sembrare gratuiti. Ed è stata una intuizione geniale quella di aver proposto l'azione scenica in un grande cantiere di una cattedrale che sta per essere ultimata. E' esatto quello ' che Costa dice e cioè che nel miracolo collettivo della cattedrale tutta una società creò il tempio della propria fede, tutte le arti collaborarono in unità di intenti, mentre fuori della chiesa i poeti creavano queste laudi, da poco staccatesi dalla funzione liturgica vera e propria. In una pausa di lavoro un gruppo di bambini sollecita l'esecuzione di alcune di quelle laudi che nei giorni festivi hanno vosto rappresentare sulle piazze
Accade allora che tutti i componenti di questo grande organismo di lavoro siano parrtecipi consapevoli di alcune di queste laudi, espressione della loro spiritualità e quindi in grado di passare da un personaggio all'altro, di recitare le parti corali, di seguire l'evoluzione dei personaggi, di improvvisare in una maniera adatta all'ambiente che di colpo era venuto a pre­starsi loro con una funzione allusiva di particolare efficacia. Costruire la cattedrale, il dramma e la loro personale spiritualità diventa cosi un unico atto. La prima parte del « Mistero » vede così — come in un grande affresco — muoversi la sacra rappresentazione in un incontro, in un dialogo immediato, su uno sfondo corale di commento, dellle stesse persone che lavorano alla cattedrale. E' il momento trepido dell'annunciazione, delll'arrivo di Giuseppe e Maria a Betlemme, della nascita, del giubilo, della fuga in Egitto, della imprecazione contro Erode. Forrse nel succedersi movimentato delle scene, nello scambio rapido e improvviso delle parti, nel conntinuo movimento improvvisato per dare all'azione un carattere incalzante e immediato, nell'irrrompere fresco dei bimbi che sollecitano la rappresentazione, nei passaggi così serrati come per voler eliminare ogni carattere di staticità, di solennità che potevano sconfinare in una for­ma da oratorio, è sembrato, in taluni momenti, che il nucleo centrale dell'azione drammatica fosse come un po' sommerso, attenuato e ridimensionato dal movimento corale dei personaggii, degli attori, degli spettatori. Nel secondo tempo, invece, (e probabilmente per la natura stessa dei testi) si è trovato maggior equilibrio. Cristo e Maria dominano la scena e l'unità stilistica appare in tutta la sua efficacia e dimensione senza mai accedere né allo spettacolare, all'oratoria, a necessità pedagogiche e didascaliche, o al compia­cimento; ma con un senso di misura, una verità che fanno di questo spettacolo una visione filtrata della storia evangelica.

Se il « Mistero » ha avuto successo e ha riscaldato i nostri cuori, se esso è vivo, se la sua drammaticità e spiritualità a­paiono ancora immediati e veri, lo dobbiamo in gran parte alla impegnata, originale, fresca regia di Costa che con questo lavoro ha firmato l'opera sua migliore ed esemplare.

Uno spettacolo, lo ripetiamo volentieri, che lascerà un segno nella storia del « Piccolo » e che dimostrerà come i valori spiri­tuali, se riportati a noi in una luce di amore e di caldo affetto, possono attestarsi saldamente nelle nostre coscienze ed essere rilevanti ed importanti sul pia­no della cultura, del teatro e del costume.
LUIGI LAMPREDI ( IL POPOLO del lunedì-Lunedì 15 febbraio 1965).



LA COMMEDIA - Episodi e personaggi del poema dantesco a cura di Grazio Costa Giovangigli - Prima rappresentazione al Lirico di Milano attuata dal Teatro Roma) - Regia: Grazio Costa Giovangigli - Costumi: Maria De Matteis - Musiche: Roman Vlad - Interpreti principali: Roberto Herlitzka (Dante), Gabriele Polverosi (Virgilio), Rita di Lernia (Beatrice), Francesca Fabbi (Maria), Maddalena Gillia (Lucia), Paila Pavese (Francesca), Silvio Ansclmo (Farinata), Sandro Ninchi (Ulisse), Massimo Foschi (Conte Ugolino), Enzo Consoli (Casella), Elena Vicini (Pia de'Tolomci), Ettore Toscano (Stazio), Chiara Cajoli (Lia), Pino Manzari (Cacciaguida), Arnaldo Bellofiore (S. Bernardo) - Lettori: M. Kalamera (Inferno), V. Cipolla (Purgatorio), S. Ninchi (Paradiso) -

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Dopo la « popolarizzazione » dell'Assassinio nella cattedrale di Eliot, il Teatro Romeo ha continuato nel suo lodevole intento di avvicinare il gran pubblico alla grande poesia, questa volta presentando in una sola serata la Commedia di Dante sotto forma di tentativo scenico, o come ha detto Grazio Costa Giovangigli che da vent'anni aspettava di realizzarlo, di una « proposta di spettacolo » che però già si distingue per la serietà di studio e l'impegno ardimentoso del suo realizzatore.

Dando alla rappresentazione della Commedia il significato di una proposta, Costa ha già avvertito spettatore e critici di quali sono i limiti. Nessuno quindi si aspettasse uno spettacolo finito nel vero senso della parola, ma semplicemente una prova, uno studio preparatorio per una serie di spettacoli danteschi; intanto si capisse da questo primo abbozzo gli sviluppi da dare al tentativo, se ben riuscito, i suggerimenti, gli ammaestramenti da ritenere o gli ostacoli che impedissero una maggiore comprensione da parte del pubblico.

Cadono quindi di fronte a questa franca e leale dichiarazione del Costa — soltanto una proposta di spettacolo — tutte le obiezioni che si riferiscono ai movimenti di masse ridotti all'essenziale, alle immissioni musicali ristrette a un solo organo e coro, alle movenze di danza appena accennate; come pure risultano inopportune o premature le facili critiche irrisorie, relative, per esempio, alla recitazione a volte troppo rapida.

La questione vera e propria che per Costa ha importanza, la risposta da dare alla sua proposta, è assai impegnativa e sostanziale per gli aspetti futuri di quest'opera: se valga la pena di continuare per questa strada; se finora appaia che sia stata espressa la portata drammaturgica della Commedia, come rivelazione specialmente della ispirazione religiosa che anima tutto il poema; infine, se l'esperimento scenico — con la presenza fisica di Dante e quindi con l'evidenza della sua condizione umana — estrinsechi le sofferte esperienze di Dante, fragile creatura umana, uomo sgomento dinanzi alle rappresentazioni del male, atterrito dalle colpe proprie che vede eternate nei peccatori condannati, ma anche mistico illuminato dallo Spirito che nell'esame e confessione dei traviamenti degli altri uomini e propri, dagli incontri con le anime purganti avviato a meditare su concretezza di bene che sospinga alla salvezza, vive « il dramma del poeta e della poesia, cioè del purificarsi attraverso il creare, del costruire derivante dall'aver veduto cento e mille altri drammi ».

Sin da questo primo esperimento scenico si può già intravedere che Dante, creatore di luce spirituale nel suo iter per Pirdua salita dal tenebroso smarrimento al congiungimento con Dio, risalta sulla scena più evidente, come uomo, Dante vivo, in contatto carnale, che non dalla lettura della Commedia ove, secondo i modelli dell'epica classica vien dal lettore piuttosto raffigurato come supcriore poeta, alto predicatore o, pur lontano da lui, profeta biblico qual era Isaia.

Costa ha ben inteso che la teatralità dantesca non è limitata a quei singoli episodi, specialmente dell' Inferno, che una critica d'esaltazione romantica ha additato ai solisti della dizione come prove di bravura; m:i la vera drammaticità sta racchiusa in quella elevazione spirituale di Dante che dalla contemplazione dell'orrida, sordida e disgustosa staticità del peccato nell'Inferno, da quell'aspetto necessario e negativo vien sospinto verso una ricerca di bellezza.

L'educazione morale che Dante intraprese nella Commedia per « indurre gli uomini a scienza e virtù» offre indiscussa materia di drammaticità teatrale con la sua scala ordinata di emozioni umane affluite in Dante, testimone e partecipe di esse, nell'ascesa completa dal negativo dell' Inferno al positivo del Paradiso. La rpettacolarità vien data da quello strutturale contrasto tra la bestialità della prima cantica, l'umanità della seconda, la spiritualità della terza, ed evidenzia in Dante la sofferenza (solo sofferenza nell''Inferno) e la gioia (solo gioia nel Paradiso) e nella salita da cantica a cantica il tremor di condanne senza purificazione né salvezza, la gaudiosa pena dell'espiazione del peccato come un debito continuamente scontato da « gente secura... di veder l'alto lume », l'estasi per la carità che è unione con l'oggetto amato.

Adeguata a questa struttura emotiva, la struttura dell'azione più convincente è parsa a Costa quella — approssimata alla forma di un grande ' mistero » — di Una rappresentazione continua (e quindi, d'ogni cantica, non soltanto alcuni canti, anche se per esteso, e nemmeno una scelta d'episodi senza legami fra loro), di una successione di episodi che conservassero l'unità d'azione propria della Commedia: a renderla, Costa ha tentato la soluzione scenica di un lettore che, dal pulpito di una chiesa (scena unica per le tre cantiche), a modo di narratage cinematografico, recita i brani del Poema aventi funzione di connessione tra i fatti più rilevanti, evoca la figurazione del testo, senza aggiungere parola che non sia di Dante.

Coordinando l'ordine delle emozioni dalle più sensibili alle più intellettuali e spirituali, Costa ha inserito nel racconto teatrale gli episodi, e i personaggi riflettentisi in Dante, che meglio offrissero concretezza alla immaginazione, che indicassero una visione, costretto perciò a tagliare — anche per restar nei limiti di tempo della recita — tutti i passi d'esposizione filosofica, in special modo della filosofia di Aristotele. Ma per quanto riguarda il poter vedere e percepire il più profondo significato racchiuso nelle parole, la scelta degli episodi è stata accurata, esatta: l'unica mancanza notevole è parsa quella di san Bonavcntura esaltante « l'amoroso drudo-della fede cristiana », san Domenico, dopo l'esaltazione di san Francesco per bocca di san Tomaso.

Per risolvere in spettacolo l'intima drammaticità della Commedia, Costa si è valso della luce che doveva « farsi e scivolare, condensarsi e smorzarsi », e in aggiunta all'apporto mimico e in unione col suono, punteggiare e sottolineare, e così bene è stata adoprata la luce che, quando l'azione si trasferiva nel palco sopraelevato dietro un velo traslucido, conferiva alle composizioni, pur concrete e plastiche, aerea levità e risultati coloristici come in una grandiosa pala d'altare di pittore Veneto, o girando attorno allo schema a piramide di talune coreografie, suggeriva un movimento elicoidale di gradevolissimo effetto, e suggestioni di prospettiva aerea; altrove i toni fluidi e diffusi, i richiami d'ombra, sommergevano le atmosfere, smussavano i contorni, escludevano la definizione delle linee.